di Antonio Devicienti
Borges nel museo archeologico di Palermo percorre con le dita le statue (elogio de la sombra – elogio dell’ombra) si emoziona al contatto con la materia lavorata millenni addietro: la collezione di urne etrusche venuta nel cuore di Palermo da un altro luogo e da un altro tempo sembra uno specchio della notte (Demócrito de Abdera se arrancó los ojos para pensar – Democrito di Abdera si strappò gli occhi per poter pensare) come se quelle persone distese su di un fianco viaggiassero, immote, per millenni (el tiempo ha sido mi Demócrito – il tempo è stato il mio Democrito) – ma il viaggio funebre, in Sicilia, inizia ancor prima degli Etruschi: D’Arrigo, Codice siciliano (da Pregreca):
«(…) ammucchiati
o clandestini nelle stive
di necropoli come navi olearie.
All’impiedi nelle giare, rannicchiati
sui talloni, masticando qualcosa
nella notte, forse tossico
(quali pensieri? quali memorie?)
nella tenace, paziente posa
dal cafone resa famosa»
Omero o Tiresia, Femio o Edipo: cecità che guardano il nascosto.
Evgen Bavčar: sì, è dimostrato che si può fotografare quello che non si vede; Jorge Luis Borges: sì, si può descrivere quello che non si vede – o lo si descrive attraverso i ricordi (è il fervor de Buonos Aires, è la luna de enfrente degli anni giovanili, di quando la vista s’affievoliva, ma ancora catturava profili di edifici, svolte di strade, periferie urbane).
E poi John Milton nei suoi ultimi anni e il bibliotecario cieco di molti versi borgesiani …