Un intrico di Sentieri nascosti

Il trittico dedicato a Sigismondo Castromediano, prende le mosse da una rilettura di Carceri e galere politiche che, nelle intenzioni del duca di Caballino, doveva essere soprattutto una «denuncia» delle «disumane condizioni di vita» dei prigionieri e un’espressione di «sdegno e […] indignazione contro il governo borbonico» (p. 20). Giannone ripercorre il volume per suggerire altre possibili letture: innanzitutto propone alcune constatazioni inedite in margine all’influenza de Le mie prigioni di Pellico, un testo da cui lo stesso Castromediano si dice lontano e che, invece, funge da modello ad alcune pagine di Carceri e galere, determinando l’introduzione di piccoli scorci idillici e veloci ritratti femminili che, secondo l’analisi di Giannone, risultano mutuati, a livello stilistico prima ancora che contenutistico, dalle pagine del saluzzese (p. 28).  Ineludibile e indagato è anche il rapporto con le Memorie di Settembrini, esplicitamente richiamate da Castromediano e sulle quali il duca ha un giudizio ambivalente, arrivando a definirle «bellissime e guaste, tagliate e interpolate» (p. 30). Il timore del confronto, che emerge pure nella corrispondenza privata (2), non è del tutto infondato: si tratta, osserva Giannone, di una differenza non solo contenutistica (le Memorie sono un testo composito e non sono limitate al periodo dell’ergastolo di Santo Stefano), dal momento che Settembrini può avvalersi «della formazione avvenuta a Napoli presso ambienti estremamente aperti» come la scuola di Basilio Puoti (p. 33), mentre Castromediano resta legato all’educazione impartitagli privatamente e a una lingua «classicheggiante e a volte antiquata nelle forme lessicali e nell’espressione » (p. 33), che arriva a penalizzare la narrazione, depotenziando momenti di per sé assai drammatici, come quello in cui il duca apprende di aver ottenuto una grazia infamante e mai richiesta: «m’intesi scorrere nelle vene una massa di piombo liquefatto, e sedei atterrito e con gli occhi impietriti, simile a colui che impazza» (p. 55). Infine, secondo Giannone, le Memorie andrebbero lette anche guardando alla loro «valenza […] socio-antropologica» (p. 24) perché offrono un’attenta descrizione dell’«universo carcerario nella sua totalità » (p. 21), anche se in Castromediano è sostanzialmente assente la riflessione sulla mancata «funzione educativa che dovrebbe svolgere il carcere» (p. 34), riflessione inve- ce costante in Settembrini, grazie alla sua mai rinnegata fede illuminista.  La rilevanza delle Memorie, in parte determinata dalla contiguità a De Sanctis e in parte dalla natura sostanzialmente ibrida del testo (3), induce Giannone ad allontanare Settembrini dagli altri memorialisti Meridionali (4) che invece vengono accostati, nell’ultimo saggio del trittico, per proporre il canone di un’«epopea risorgimentale del sud», un «corpus compatto e omogeneo, pur nelle ovvie e inevitabili differenze di struttura e di stile esistenti tra di esse» (p. 44). Il fatto che siano note solo agli studiosi nasce, secondo Giannone, dalla «consueta emarginazione che vicende e personaggi della storia meridionale hanno subito» e, a questo punto, si intravede nel testo un altro sentiero secondario, che conduce, ma per il momento ci affacciamo a esso senza imboccarlo, alle riflessioni di Vittorio Bodini sull’incongruenza di una «storia […] scritta secondo una prospettiva centro-settentrionale, cosicché una parte degli italiani studia solo la storia degli altri senza saper nulla della propria» (p. 38). Tale constatazione porta a verificare come l’oscurare un pezzo della storia risorgimentale determini un danno non solo per il Sud, poiché mille fili, spezzati da questa omissione, avrebbero condotto, in quegli anni, a Torino: piemontese è Giovanna Bertola, la moglie e biografa di Antonio Garcea, e piemontese è la baronessa Adele Savio, la giovane di cui, giunto a Torino, Castromediano si innamorò, dopo essersi invaghito della bellissima madre di lei, Olimpia, animatrice di uno dei più esclusivi salotti del capoluogo. È lo stesso Castromediano ad ammettere, nella lettera dedicatoria ad Adele, che Carceri e galere deve la luce alla sua insistenza e alla sua instancabile azione, alla quale il leccese aveva dovuto qualche volta sottrarsi, come quando si era mostrato comprensibilmente più che perplesso di fronte alla proposta di far inserire nel Padiglione pel Risorgimento italiano, il primo nucleo del Museo del Risorgimento, il proprio ritratto in mezzo a quello dei fratelli di Adele, caduti nel ’60 e nel ’61, «mettendovi sotto queste righe di cenno: Sigismondo Castromediano de Limburgh Duca di Caballino Leccese che per 12 anni trascinò con Poerio, Settembrini, Pisanelli, Spaventa ecc. le catene borboniche e ancora ne porta i segni» (5). A Torino infine conduce anche Il più leale tra noi, l’ultimo capitolo della trilogia, che apre nuovamente un sentiero alternativo, nella direzione delle scrittrici di cui si discorre nel volume. Giannone legge Noi credevamo, il romanzo di Anna Banti, guardando non al protagonista e narratore – il poco noto Domenico Lopresti –, ma a Castromedia- no, restituito dall’autrice come uomo di notevole lealtà e generosità, eppure avviluppato da un’aristocratica distanza che lo rende privo di «sensibilità sociale» e prigioniero di un tempo che non è più il presente: un elemento questo che, in certo modo, lo avvicina all’anziano, disilluso e ancora battagliero Settembrini. Proprio a Torino, città in cui Lopresti si è sposato e stabilito e che Castromediano si prepara invece ad abbandonare per sempre, avviene, nel libro della Banti, l’ultimo incontro fra i due, con la tacita condivisione della delusione «nei confronti degli avvenimenti succedutisi all’unità d’Italia»: «questa circostanza mi commuove ma temo che, purtroppo, solo la nostra tristezza si assomigli» (p. 79). 

Con la chiusura del trittico si apre la seconda sezione del volume, dedicata a Scrittori e scrittrici del Novecento. Invertirei l’ordine dei saggi proposti per riallacciarmi subito a quello dedicato a Vittorio Bodini, ispanista e raffinato traduttore di García Lorca, Góngora e Cervantes, poeta e narratore «che opera, fin dall’inizio, in una dimensione nazionale, per non dire europea» (p. 190), eppure «autore del Novecento che almeno in parte ha avuto» una «sorta di damnatio memoriae» condivisa con i memorialisti meridionali (p. 37). L’autore, che a Bodini ha dedicato nel corso degli anni diversi saggi (6), si occupa qui del Fiore dell’amicizia, romanzo giovanile, incompiuto e mai rivisto che, da alcuni indizi interni al testo, si può supporre venga iniziato a ventotto anni, nel ’42. Giannone guarda a questo romanzo, che fin dal titolo suggerisce essere «di formazione» per individuare, attraverso un gioco lieve fra autobiografia e narrazione, i momenti più rilevanti, caratterizzati non solo dalla «progressiva conoscenza di sé» ma anche dalla «scoperta, sia pure dissimulata, della propria vocazione letteraria» (p. 103). Il rapporto, subito suggerito, con il Joyce di A Portrait of the Artist as a Young Man – e si ricordi che Bodini è autore di un notevole Compianto dello scrittore irlandese – funziona soprattutto nella misura in cui Lecce appare, come Dublino, un luogo in cui il protagonista «si sente imprigionato e non vede l’ora di fuggire» (p. 104). Il romanzo si rivela infine ricco di «nuclei concettuali, motivi e immagini» sia pure «ancora allo stato embrionale» che diventeranno cifra distintiva dell’autore maturo, entrando a far parte di un «organico sistema interpretativo del Sud» (p. 109), e che non sono esclusivamente rintracciabili nelle liriche, come indicato a suo tempo da Valli, ma anche nelle prose narrative (p. 105): non si tratta solo dei «personaggi presenti nel romanzo che compariranno anche in alcuni scritti successivi» (p. 105), puntualmente individuati da Giannone, ma di vere e proprie categorie interpretative, qui appena accennate, come «l’immagine del vuoto […] concetto-base dell’interpretazione bodiniana del barocco leccese» (p. 104).  A questo punto possiamo proseguire sul sentiero del romanzo, questa volta di mano femminile per arrivare a Malapianta, l’unico romanzo di Rina Durante, allieva di Mario Sansone e solidamente inserita nell’ambiente intellettuale leccese. Ambientato «nel Salento, in particolare nella ristretta area geografica che comprende tre piccoli comuni» è la storia della rovina della famiglia Ardito, composta da due coniugi e dai loro figli, avuti da precedenti matrimoni o concepiti insieme. La novità del romanzo, osserva Giannone, consiste nell’aver trasferito il tema dell’incomunicabilità e dell’alienazione «da una classe, la borghesia, a cui esso era tradizionalmente associato, a un ceto sociale e a un ambiente, il mondo contadino del Sud, a cui invece finora era stato sempre estraneo» (p. 137). Infatti la Malapianta, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, tratta solo tangenzialmente di tematiche sociali, perché tutti i personaggi, pur immersi in una povertà drammatica, «sono dilaniati da un male sottile che condiziona le loro esistenze e ne fa delle monadi sofferenti e disperate» (p. 130) e qui Giannone spende, a sorpresa, il nome di Giuseppe Berto (il suo Male oscuro esce proprio nel 1964), un altro autore novecentesco che ha subito, non per ragioni legate alla provenienza regionale ma a causa della sua complessa parabola politica, una sorta di damnatio memoriae. Guardare a Berto significa anche sottolineare come esista, nel romanzo della Durante, una sorta di proficua incoerenza (Giannone parla di «scompenso nella delineazione dei personaggi») fra l’abbrutimento in cui gli Ardito vivono e le loro riflessioni, veri e propri monologhi interiori (p. 137). Esemplificativa risulta in questo senso l’ossessione del capofamiglia, «un tormento interiore che assume connotati di sapore quasi esistenzialistico» e che prende corpo dall’idea di «venire al mondo per puro caso […] col pensiero costante della morte, fin dalla nascita» (p. 131). La descrizione del paesaggio di cui si «mettono in rilievo l’aridità e lo squallore», osserva Giannone, «è funzionale alla rappresentazione dei personaggi» (p. 136) e, in alcuni casi, sembra suggerito dal linguaggio che Durante, cinefila attenta e informata, ben conosceva: Giannone fa, in particolare, i nomi di Bergman e Antonioni. 

Proseguendo sul sentiero della scrittura femminile si incontra il saggio Ada Negri e la «Rivista d’Italia» che, fin dal sottotitolo fra parentesi, mostra di rispettare la regola dell’appartenenza territoriale, perché è costruito a partire da ventitré lettere, dal 1918 al 1940, indirizzate dalla scrittrice a Michele Saponaro, originario di San Cesario di Lecce e redattore unico della rivista dal dicembre 1917 al luglio 1920, data in cui abbandonò l’incarico in seguito a dissapori con la direzione, determinando anche l’allontanamento della poetessa. In quel biennio il rapporto di amicizia fra i due non solo consentì una collaborazione abbastanza costante della Negri (e anche di Margherita Sarfatti) ma soprattutto rese possibile che lei, entrata nel consiglio direttivo nell’aprile del 1918, accettasse, anche se non in maniera ufficiale, di coadiuvare Saponaro nel lavoro di redazione (p. 88): particolarmente interessanti sono i giudizi della scrittrice sui testi pubblicati nella rivista, fra i quali spicca il romanzo dello stesso Saponaro La casa senza sole. Dal canto suo Saponaro non mancò di mostrare la propria gratitudine per la preziosa collaborazione commissionando nel 1918 a Paolo Buzzi un ritratto della scrittrice poi comparso nella prestigiosa rubrica Gli uomini dell’Italia odierna.  Uno sguardo al femminile lontanissimo dalla brillante società letteraria e carico di malinconia è invece quello che caratterizza i tre reportages di Anna Maria Ortese, uno dal Salento e due dal Gargano. La scrittrice entra in contatto con una delle poche realtà economicamente fiorenti in un contesto estremamente depresso, quella della lavorazione del tabacco, e ne ritrae le principali vittime, donne giovani, in alcuni casi bambine, che «vivono una vita-non vita, priva di speranza e di prospettive», immerse in un paesaggio severo, scabro e meraviglioso. Giannone si sofferma su notevoli ritratti femminili, fino all’episodio conclusivo di Maria di Mele, un «esserino» «dalla testa stranamente aggressiva, rapata» che subisce una vera a propria metamorfosi nel momento in cui Ortese scrive il suo nome su un taccuino: ebbra di gioia ripete gridando «mi ha scritta e mi basta», rendendosi così inconsapevole emblema «del disperato desiderio della gente del Gargano di legarsi a qualcosa, di vivere insomma una vita vera» (p. 123).  La chiusura della sezione, con il saggio sulla Poesia ‘filosofica’ in dialetto di Nicola G. De Donno, costituisce anche un ponte ideale verso la sezione successiva nella quale si ricorda che due dei tre critici ritratti, Mario Marti e Donato Valli, si sono occupati in modo rilevante di De Donno (p. 143), mentre il terzo, Luigi Russo, aveva affidato a un giovane De Donno la cura della sezione filosofica della neonata rivista «Belfagor» (p. 145). Giannone ripercorre il «poetare-filosofare» di De Donno come una lunga «auto-preparazione alla morte» fin dal momento in cui la morte «tiene per mano il poeta appena nato insieme alla consapevole madre sulla “cieca” strada della vita» (p. 146), e lo stesso poeta, adulto, confermerà il proprio nichilismo, dicendosi convinto che «tutto avvenga “pe ccumbinazzione” […] e non ci siano interventi soprannaturali a cambiare il corso delle cose» (p. 152). Tre sono, principalmente, le realtà con cui si confronta De Donno: il «cerchio ferrato», immagine dell’io, di una forte «individualità, simile a un carcere invalicabile e causa dei tormenti più acuti», e, al di fuori, il tempo e la storia, entrambi «fagocitati dalla Vita universale, che annienta le vite dei singoli individui, come quelle degli animali, come le memorie e le storie» (p. 162). I motivi qui sveltamente ripercorsi, ma analizzati da Giannone nell’evolversi di raccolta in raccolta, sono espressi in un «singolare impasto lessicale, in cui, accanto a voci antichissime e a prestiti o adattamenti dall’italiano figurano espressioni latine […], neologismi […] e perfino anglicismi», il tutto utilizzato con una competenza metrica e retorica declinate in barocco, come se il poeta volesse provare a vincere, senza parere, l’horror vacui che lo incalza.  Transitando all’ultima sezione si incontra il testo su Vincenzo Monti nell’interpretazione di Luigi Russo, che costituisce una sorta di “a parte” rispetto al resto del volume, una lunga riflessione su un’«importante, per quanto discutibile e discussa, […] lezione di metodo» (p. 178).  In realtà, lo si è già in qualche modo anticipato, è nell’offrire il ritratto di due suoi maestri che Giannone mostra come anche l’ultimo sentiero imboccato si ricongiunga perfettamente agli altri, anzi, si potrebbe quasi dire che si riveli in qualche modo quello che, per chiarezza del tracciato e importanza del percorso, ha permesso che tutti gli altri fossero immaginati.  Mario Marti viene ritratto in occasione del suo centesimo compleanno e in particolare Giannone, condividendo con il lettore una lunga e meditata lettera a lui indirizzata, indaga sul suo rapporto con la modernità novecentesca e con una specificità salentina che guarda all’Europa: di Bodini e del suo riaffiorare in molte pagine del libro già si è detto, ma qui Giannone fa anche un altro nome importante, quello di Girolamo Comi, centrale nel contributo successivo, dedicato a Donato Valli e intessuto di ricordi personali.  Il complesso e mai scontato tragitto lungo questi Sentieri nascosti si chiude così, attraverso il tributo, scientifico e umano, ai due maestri che hanno avvicinato Giannone allo studio della modernità e alla passione per le radici salentine.

Note

1 Mi permetto di rimandare a C. Allasia, Il «vecchio libro» «del pioniere», in G. Getto, Storia delle storia letterarie, a cura di C. Allasia, pres. di F. Tessitore, Napoli, Liguori, 2010, pp. XI-XXII.

2 «Ma davvero poi le mie Memorie potranno stare a lato di quelle del grande Settembrini? Ne dubito molto», Castromediano ad Adele Savio, da Lecce il giorno di santo Stefano del 1880, il carteggio fra i due è stato integralmente trascritto nella tesi di A. Del Zotto, «Dopo sì lungo bersagliare di fortuna»: l’epistolario tra Adele Savio e Sigismondo Castromediano, discussa presso l’Università di Torino nell’a.a. 2012- 2013, relatrici L. Nay, C. Allasia.

3 Sulla complessa natura autobiografica delle Memorie cfr. L. Nay, «Maschere no»: lo svelarsi dell’io nelle scritture autobiografiche di Luigi Settembrini, in «Studi desanctisiani», 2014, pp. 115-128. 

4 Si tratta di Nicola Palermo (Raffinamento della tirannide borbonica ossia I carcerati di Montefusco, 1863), Giovannina Garcea Bertola, biografa di Antonio Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle rivoluzioni d’Italia dal 1837 al 1862, (1862), Cesare Braico (Ricordi della galera, in un volume di altro titolo, 1881) e, infine, Nicola Nisco con il suo libro di carattere storico Gli ultimi trentasei anni del reame di Napoli, 1894. (p. 39).

5 Adele Savio a Sigismondo Castromediano del 7 aprile 1884. Sull’argomento mi permetto di rimandare a Fenomeni di militanza, Scritture dell’impegno dal secolo di De Sanctis al Novecento, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2018, pp. 89-110.

6 Si segnalano anche gli atti del convegno internazionale di studi (Lecce-Bari, 3-4, 9 dicembre 2014) Vittorio Bodini fra sud ed Europa (1914-2014), a cura di A.L. Giannone, Nardò, Besa, 2017, 2 voll.  [In “Sinestesie”, a. XVII, 2019, pp. 534-540]  

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