Le percentuali dei livelli d’istruzione registrati dai censimenti non tengono conto del cosiddetto «analfabetismo di ritorno», fenomeno che oggi riguarda circa il 30 per cento della popolazione italiana compresa tra i 25 e i 65 anni (secondo un’indagine dell’Istituto Cattaneo per la Fondazione Feltrinelli). Si tratta di cittadini che (pur avendo frequentato la scuola per un certo numero di anni) presentano forti limitazioni nella lettura e nella comprensione del testo letto. Un analfabeta funzionale ha una certa padronanza dell’alfabetizzazione (può leggere e scrivere, esprimersi con un grado variabile di correttezza grammaticale) e riesce a comprendere il significato delle singole parole; ma non raggiunge un livello adeguato di comprensione. In altre parole legge, capisce frammentariamente qualcosa, ma non raggiunge una comprensione piena di quanto legge; di conseguenza, non è in condizione di decifrare le eventuali implicazioni politiche o ideologiche (spesso non dichiarate) del testo letto. Tale situazione ha grande rilevanza sociale. Gruppi consistenti di persone scolarizzate col tempo perdono progressivamente le competenze acquisite a scuola. Tullio De Mauro, linguista grandissimo e noto a molti, scomparso da qualche anno, ha spiegato il fenomeno con la regola da lui definita “del -5”. Data la natura selettiva della nostra memoria e del nostro cervello, se in età adulta non continuiamo a esercitare le competenze che abbiamo acquisito tendiamo a regredire di cinque anni rispetto ai livelli raggiunti durante gli studi.
Il principio è semplice: se hai una capacità e smetti di esercitarla, poco alla volta regredisci. Lo constatiamo empiricamente per il fisico: se sei abituato a correre e smetti di allenarti, la tua velocità nella corsa diminuisce drasticamente. Lo stesso vale per il cervello: se non eserciti le facoltà cerebrali, perdi le abilità che avevi raggiunto. In tutti i campi dello scibile. Se non leggiamo libri, saggi o romanzi storici, di tutta la storia studiata restano brandelli sospesi nel vuoto. Non sappiamo più cosa è successo alle Termopili, né tra chi è stata combattuta la guerra dei cento anni. Se abbiamo appreso una lingua straniera e smettiamo di esercitarla, poco alla volta non sappiamo più parlarla. Il mancato esercizio delle competenze, prima apprese e poi lasciate ad ammuffire in un angolo del cervello, ci fa perdere i traguardi raggiunti.
Nella vita di ogni giorno questo comporta la difficoltà di comprendere testi o materiali informativi, anche non specialistici: articoli di giornale, contratti, regolamenti, bollette, corrispondenza bancaria, orari di mezzi pubblici, cartine stradali, foglietti illustrativi di farmaci, istruzioni di apparecchiature, dizionari, enciclopedie. Non si tratta solo di difficoltà pratiche, che in certi casi possono essere aggirate se si chiede l’aiuto di un parente o di un amico di cui ci si fida. Su un piano generale tutto ciò comporta superficiale conoscenza dei fenomeni scientifici, politici, storici, sociali ed economici che connotano il contesto nel quale si vive. Le nostre idee si basano esclusivamente o prevalentemente su esperienze personali o di persone vicine, non sulla capacità personale di analisi. Siamo prigionieri di stereotipi e di pregiudizi, mostriamo insofferenza nei confronti di chi esprime idee diverse dalle nostre.
L’analfabetismo funzionale comporta insomma difficoltà che vanno ben al di là della scarsa abilità di utilizzare la lingua scritta per formulare e comprendere messaggi (che pure è questione rilevantissima). Ha effetti determinanti sulla capacità di un soggetto di esprimere il proprio diritto alla cittadinanza (dal voto al diritto all’informazione, alla tutela sul lavoro ecc.) e di potersi inserire in modo autonomo nella società. L’individuo funzionalmente analfabeta paga la sua condizione con esclusione sociale, insicurezza, mancanza di autonomia, precarietà. Altrettanti pesanti sono i costi collettivi: ridotta partecipazione al processo democratico, indifferenza o scarsa attenzione alla criminalità, tendenza a violare le regole del vivere civile; e i costi economici: limitazione dello sviluppo, bassa propensione all’innovazione, scarsa produttività.
Istruzione e formazione sono fondamentali per il progresso della società. Si sente parlare di istruzione permanente, ma questa spesso appare una vuota formula priva di iniziative concrete. Nessuno si sogna, chiariamo subito, di far tornare sui banchi di scuola la popolazione adulta impegnata nel lavoro e nella vita. Ma esistono altre strategie che possono contribuire a elevare il livello complessivo dell’istruzione nel nostro paese e ad attutire i rischi dell’analfabetismo funzionale. Un esempio possibile, tra i tanti. La televisione di stato potrebbe permettersi di non imitare pedissequamente le televisioni commerciali, di non essere ossessionata dall’audience, visto che è mantenuta in vita dal canone che tutti paghiamo. Potrebbe dare in prima serata spettacoli teatrali e film di buon livello, trasmettere opere liriche, documentari scientifici rigorosi. Si darebbe la possibilità, a chi non vuol seguire «Il Grande Fratello» o «L’isola dei famosi vip», di assistere a spettacoli di qualità senza cercarli alle due o alle tre di notte o sulle piattaforme a pagamento.
Illusioni, probabilmente. Una parte notevole della classe dirigente considera sprecati gli investimenti in cultura, anche quando costano pochissimo. Politici che ricoprono ruoli di governo dichiarano candidamente di non leggere libri o di non andare a teatro da anni. Altri, che si ispirano a un malinteso culto del fare, si pongono la domanda: «Perché debbo pagare uno scienziato, se produciamo le migliori scarpe del mondo?» (testualmente, chi è curioso, cerchi in rete). Informazione, cultura e intelligenza non servono, ai loro occhi. O forse, ancor peggio, preferiscono un popolo che non riflette, che non contesta, che non dà problemi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 15 ottobre 2023]