È il sogno della vetta il primato dei grandi campioni

Non ha mai rivendicato nessun record, Messner. Non ha voluto crosci di mani. Dice semplicemente che quando lui e Hans scalarono una parete interminabile e difficilissima dell’ Annapurna, infuriava una tempesta.   Adesso Messner ha quasi ottant’anni. Mi farebbe piacere chiedergli se qualche volta gli gira per la testa quella canzone straordinaria in cui Francesco Guccini racconta   di  uno scrittore di storia, geografia e varia umanità, di quel viaggiatore instancabile che si chiamava Hendrik Willem van Loon.
Che cosa importa  se per quella vetta mancava un metro, un palmo.

Dice Hans Kammerlander, con serenità, che non esiste la certezza assoluta d’essere arrivati all’ultimo centimetro di quella vetta. Erano altri tempi. Non c’era gps, e poi l’alpinismo non è uno sport, e quindi non esistono competizioni e vincitori.

Forse l’avventura degli ottomila metri è qualcosa di più, di molto di più di un primato. E’ una metafora dell’esistenza. Si arriva al punto in cui si può arrivare. Ci si ferma al punto in cui ci si deve fermare. A volte manca qualcosa per arrivare al punto che esaudisce il desiderio, che realizza il sogno di una vita. Ma le cose  vanno così.

Un’altra storia di montagne e scalatori: quella di Cesare Maestri.  E’ morto a 92 anni, il 19 gennaio del 2021. Lo chiamavano “Il ragno delle Dolomiti”. Scalava montagne a mani nude come un ragno si muove sul muro. Negli ultimi tempi camminava con il girello. Uno che azzannava la roccia,  camminava con il girello. Si è  campioni se si sa accettare questo. Dipendeva dagli altri, Cesare Maestri. Uno che scalava in solitaria, dipendeva dagli altri. Si è campioni se si sa accettare questo. Parlava a fatica. Dalla sua casa a Madonna di Campiglio, guardava la montagna, da lontano. Perché  quella roccia con la quale il suo corpo si confondeva, si era fatta lontana lontana. Un ricordo senza nostalgia. In un’intervista a “Repubblica”  diceva che l’alpinismo gli aveva  insegnato a vivere, che il suo ricordo gli insegnava a morire. Si è campioni quando si sa fare così, quando si sa immedesimarsi con le stagioni. Si è campioni quando si sa comprendere il proprio tempo. Si è campioni quando si capisce, non quando si vince.

A volte Cesare Maestri si domandava che cosa avesse fatto per così tanto tempo. Se facendo il conto di tutto non si fosse arrampicato sul niente. Questo si chiedeva, uno che gettava nel vuoto la corda prima di scendere da pareti di sesto grado. Lo faceva quando era giovane, forte, bello. Se lo chiedeva quand’era vecchio, fragile, brutto. Se lo chiedeva mentre faceva ginnastica contro la ringhiera delle scale di casa. Se lo chiedeva e si rispondeva che la sua impresa era vivere con dignità fino alla fine. La sua impresa era fare cinquanta metri aggrappato al girello per arrivare al supermercato. Ecco: si è campioni quando si accetta questa impresa: che non si può comparare con la conquista di qualsiasi altissima vertiginosa vetta. Diceva che la vecchiaia richiede più coraggio della gioventù, perchè l’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno. Non si è campioni quando si vince. Si è campioni se si  resta se stessi quando non si può vincere più. Se si comprende che il traguardo più ambizioso, quello che ti consegna un incomparabile trofeo, è la luce del giorno che arriva. Tutto il resto è vanità che non serve.

Però, quando si capisce questo,  si smette di essere campioni soltanto per diventare grandi campioni.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 8 ottobre 2023]

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