di Antonio Errico
Allora uno si domanda quanto sia importante, veramente, nella sostanza delle cose, se Reinhold Messner abbia raggiunto oppure no la vetta dell’ Annapurna, se a quegli ottomila metri ne sia mancato uno, per esempio, se dietro quella roccia ce ne fosse un’altra più alta un palmo. Uno se lo domanda adesso che Guinness World Records gli ha tolto il primato. Allora uno si domanda se quello che importa, veramente, non sia il fatto che Messner abbia scalato, abbia respirato quell’aria, sprofondato lo sguardo in fondo a quell’orizzonte. Uno si domanda se quello che importa essenzialmente sia raggiungere la vetta oppure sognare di arrivarci, e poi tentare la scalata. Andando in alto con umiltà, con ambizione ma senza arroganza, con tenacia e sacrificio ma senza sfida, per vedere com’è il paesaggio da lassù, per poter dire a se stesso: sono arrivato dove ho potuto. Per misurare le proprie forze, non per stabilire un primato. Messner dice di non aver mai rivendicato nessun record per cui non gli possono disconoscere nulla. Poi dice che le montagne cambiano, che sono passati quasi quarant’anni anni, e la montagna è cambiata. Di certo c’è che sull’Annapurna sono saliti lui e Hans Kammerlander. Basta questo. Basta il fatto che ci sono arrivati. Poi magari mancava un metro, un centimetro, un palmo. Ma a quell’altezza che importanza ha. Mi farebbe piacere chiedere a Reinhold Messner se per un minuto, un minuto soltanto, gli siano passati per la mente quei versi di Giovanni Pascoli che dicono così: “Salgo; e non salgo, no, per discendere,/ per udir crosci di mani, simili/a ghiaia che frangano,/io, io, che sentii la valanga;/ma per restare là dov’ è ottimo restar,/ sul puro limpido culmine”.