Il fiore dell’amicizia di Vittorio Bodini

In un contesto similmente miscellaneo, sebbene di natura monografica, il romanzo fu poi riproposto nell’effimero volume del 1985, Prose inedite di Vittorio Bodini, per i tipi dell’Editrice Salentina di Galatina. I due contributi critici testé menzionati concorrono a lumeggiare il testo in tutte le sue sfumature, sebbene li separi un trentennio di ricerche certosine e di recuperi di materiali bodiniani disseminati in mille rivoli. Nondimeno, salvo la prefazione di Giannone, l’apparato paratestuale non ha subito, rispetto all’edizione del 1983, sostanziali modifiche, essendo stata riprodotta intatta anche la Noterella filologica, utile a chi legge per penetrare nel laboratorio del poeta e per valutare le scelte operate dall’editore. Vi sono riportate le caratteristiche materiali e i dati intrinseci (come la natura del ductus)dell’unico testimone: un manoscritto autografo articolato in due quaderni, che la vedova del poeta, Ninetta Minelli, ha custodito nell’archivio familiare, integrato da ulteriori 10 fogli, collocati in un’altra rubrica, contenenti i primi due capitoli. In chiusura vengono indicati i criteri seguiti nell’allestimento dell’edizione, fra i quali si segnala l’opzione costante per le varianti alternative interlineari e la registrazione in note a piè di pagina del corrispondente segmento di testo non soppresso dall’autore (dieci casi in tutto), avendo identificato nella lezione più recente la sua ultima volontà.

Valli si sofferma su almeno tre aspetti del romanzo: in primis sui tempi di stesura e, quindi, sulla posizione eccentrica che esso occupa nel panorama della metà degli anni quaranta, dominato dal verbo neorealista. Egli esclude, con fondate motivazioni, che questo esperimento metanarrativo abbia sancito per Bodini l’affrancamento dai moduli della prosa di memoria: ipoteca estetica degli anni fervidi vissuti nella Firenze ermetica di Montale e delle Giubbe Rosse, di Gatto, Luzi e del conterraneo Macrì, e del loro illusorio prosieguo, all’amaro rientro nella «fossa dei leccesi», su quell’«isola di indifferenza» che la terza pagina del settimanale Vedetta mediterranea, fondato nel 1941 e diretto da Ernesto Alvino, rappresentò a fronte dell’asfittico provincialismo di regime; e conclude perentorio: «il romanzo d’un presente vissuto a ritroso, cioè con un che di nostalgico e di ironico, un presente che si corrompe nell’attimo stesso in cui lo si vive e che deposita nell’anima il sentimento di quel vuoto e di quella corrosione. Perciò la narrativa di Bodini non è realistica neppure negli anni della moda e dell’impegno neorealistici» (p. 24). In secondo luogo Valli individua proprio nella preponderanza della materia autobiografica, e non in una contrastiva o compensativa invenzione di personaggi e di nuclei narrativi, la matrice del fantastico. Questi ultimi sono persone e fatti reali che la vena ironica dell’autore tende a deformare in macchiette di tono grottesco, in figurine faldelliane teneramente mitizzate, che trovano nel bozzetto il proprio luogo naturale. E ciò è pur sempre un atavismo della letteratura salentina. In sostanza «il favolistico nascerebbe dall’accentuazione del dato realistico» (p. 28). Infine, Valli illustra un campione di luoghi del romanzo, di archetipi, di tropi o «segmenti di sintagmi elementari»[1], come li definiva Oreste Macrì, che approdano nel versante poetico senza subire alchemiche dissimulazioni né variazioni sul tema.

Giannone, dal canto suo, integra questa mappatura di riscontri in riferimento però alla ricca produzione in prosa, territorio a lui più familiare[2]. Ma il suo intervento si rivela ancor più decisivo nello stabilire il periodo di composizione. Avendo Macrì ripartito l’avventura esistenziale-artistica di Bodini in «sei vite»[3] (eccettuato il preludio futurista leccese dei primi anni trenta), egli, fondandosi su recenti acquisizioni della produzione in prosa e su una missiva a Macrì del 2 novembre 1946 da Roma, retrodata il romanzo ad un arco temporale tra il 1942 e il 1946, tra la fine della seconda “vita” (quella leccese fra l’autunno del ’40 e l’estate del ’44) e l’intera terza (quella romana fra il luglio del ’44 e il novembre del ’46), mentre Valli lo ascriveva ai primordi della quarta fase (in Spagna fra il novembre del ’46 e la primavera del ’47). Riconduce, inoltre, il romanzo al genere del Bildungsroman, poiché si assiste alla formazione del protagonista diciottenne «che fa il suo ingresso nella vita attraverso alcuni riti di passaggio: la ribellione nei confronti della scuola e della famiglia, l’inserimento nel gruppo di amici, l’iniziazione al sesso, le relazioni sentimentali» (p. III). Mentori esperti quanto spavaldi, in siffatte esperienze picaresche, sono due compagni più grandi di lui, che gli instillano con ammiccante sagacia il fascino ambiguo del proibito, categoria che si incarna ora nel gioco d’azzardo, ora nel furto di frutta nelle campagne, ora negli spettacoli conturbanti del Teatro San Carlino, ultimo tempio del varietà ormai travolto dal cinema. Parallelamente si forma l’artista e come tale si rivela a se stesso. Infatti è proprio qui che trova esplicazione – sottolinea Giannone – la lettura a lungo sedimentata di Joyce, autore che insieme a Freud, Kafka e Proust risultò decisivo nel processo di crescita intellettuale di Bodini durante gli anni fiorentini, nonostante la guardinga censura fascista spingesse alla clandestinità la circolazione di quei libri. Joyce lo proietta nel canone europeo con il suo A portrait of The Artist as a Young Man: Vittorio come Stephen Dedalus, Lecce come Dublino, città della paralisi donde evadere almeno nella stessa misura con cui non avrebbe voluto, causa la guerra, essere strappato alla magica orbita di Firenze, per compiere la sua tragica catabasi: «Quando tornai al mio paese del Sud, / io mi sentivo morire» (Foglie di tabacco, 4).

Al di là delle divergenti datazioni, c’è un dato che risulta perspicuo in ambedue gli interventi: l’impatto della stagione fiorentina segna fortemente il romanzo e ne forgia la chiave di lettura. Bodini come Macrì, anche lui naufrago sbattuto nella terra di origine dopo le battaglie in riva d’Arno, era «emigrante ritornato, che rivoleva gli anni passati», e il romanzo rappresenta la risposta a questo impulso dirompente. Sicché la desolazione che seguì quel repentino distacco dai fermenti della bohème, raccoltasi sotto gli auspici di Montale e della rivista «Letteratura» di Bonsanti, fece ripiegare su se stesso il presente del poeta e lo incanalò verso un dissodamento non meno lacerante dei giorni in cui «si era fatto il suo volto»[4]: la giovinezza nervosa dei primi anni trenta, quando capeggiava il gruppo futurista «Futurblocco leccese». Resta però confermato che a pesare più di ogni altra cosa sul suo fardello di rimpianti fu la brusca interruzione dell’idillio con la bella inglese Isobel Gerson, che avrebbe poi immortalato nella seconda sezione de La luna dei Borboni, salentinizzandone l’icona. Firenze, Isobel, quei giovani che sfidavano i loro coetanei fascisti irreggimentati nel «Bargello» erano, peraltro, una finestra schiusa furtivamente sull’Europa. Ora, in quel deserto di provincia, compie il primo “recupero” della sua Lecce (il secondo avverrà al ritorno dalla Spagna nel 1949), aggrappandosi a rare analogie con il vissuto più recente. L’analessi si innesca attraverso il trapasso lineare, fra i primi due capitoli, dal presente all’imperfetto conativo (rotolavamo per terra, p. 41) e all’uso sistematico dei tempi storici, mentre è l’amore per l’azzardo il trait d’union fra l’io-narrante (Bodini supplente di liceo) e l’io-narrato (il diciannovenne espulso dalla scuola per condotta irriguardosa). Quest’ultimo si tuffa nello scialo della sua proto-boheme, si arruola in una masnada di spostati nottambuli, che ora lo catechizzano ai mala facinora ora ad avvicinarsi al mondo femminile; sempre squattrinato per punizione, deve perciò arrabattarsi nell’arte (tutta bohemien) dello scrocco tra i tavolini di un caffè. Si disegna così uno spaccato della Firenze del Sud prima degli sventramenti promossi dal regime[5], fissandone la facies nelle case cubiformi dalle «feste galanti / di calce e verde di Francia»[6] rese abbacinanti dal sole estivo. Il barocco leccese è solo apparentemente assente, in quanto affiora mediante il parametro dell’horror vacui che si avverte nei luoghi aperti della città (p. VII). Ma il vuoto, a me pare, è anche un costituente interiore che inietta di sé le guasconate e il vagare senza meta di Vittorio e compagni. Sulla scia di Giannone, che pone l’accento sulle letture degli anni fiorentini (Joyce in primis), sarebbe forse ricca di sorprese un’indagine integrativa su quanto abbiano inciso invece le letture dei fiorentini, narratori allora frequentati de visu come Pratolini, Bonsanti, Bilenchi. Certo, l’evocazione lirica già prefigura il canto poetico, sicché torna arduo cercarvi un autentico vigore narrativo, ma riconsiderando la proclività di Bodini a filtrare la materia con ironia e a giocare d’azzardo anche con i moduli testuali, con i tòpoi del Bildungroman e con i sistemi narrativi in genere, il quadro critico potrebbe arricchirsi.

Ne è un esempio il rapporto con l’opera di Bilenchi: il sodalizio Vittorio-Albertino è un riflesso meno problematico dell’amicizia fra l’irresoluto Marco e il più esperto Dino, che gli insegna ad amare le ragazze, nell’omonimo e coevo racconto del 1941. Ancor più pronunciato il rinvio a Un errore geografico[7] (uscito nel 1943!), sia per il conflitto fra il protagonista e il suo professore (nel quale Bodini si identificava) sia, soprattutto, per la prassi di lasciare nell’indeterminatezza la città fulcro della vicenda, indicandola solo con la lettera iniziale (in Bilenchi Grosseto diventa G., come in Bodini Lecce è solo L.). Più complesso e, oserei dire, insidioso il tema del rapporto burrascoso con la madre, che sembra un inconscio rovesciamento di Anna e Bruno (1938). Proprio la galleria muliebre del libro, casuale compendio di profili femminili fien de siècle, reca talvolta lo stigma dell’ironia. Se la serva di paese Rosaria ribalta l’elogio gozzaniano degli amori ancillari, l’esile Flora serba un umbratile fascino crepuscolare, mentre la prostituta Nelly ridesta il fantasma decadente di Fosca, rasentandone la parodia. Resta isolato il grazioso e verecondo idillio con Ines, tenue riverbero tardo-romantico, ora rivisto in ottica figurale rispetto al momento decisivo di Isobel. Qualche riferimento alla preistoria futurista appare nel cap. IX. I preparativi per una corsa motociclistica sono descritti con lessico marinettiano: «L’occasione recente della gara aveva messo in corso da alcuni giorni ragionamenti sui motori, le valvole, gli accumulatori, i cambi, le medie orarie ed altre cose meccaniche…» (p. 118). Superfluo ribadire che anche qui rosseggia il crepuscolo del romanzo concepito come récit, cioè con un impianto coerente di azioni e avvenimenti. Una serie di addentellati di sapore antropologico sui costumi dei leccesi (divagazioni le chiama Bodini) dilatano il tempo del racconto e ne infrangono il ritmo. Vi si ritrovano la diffusa attitudine alla maldicenza, la passione per il gioco, il matriarcato arcigno, rimedi contro le torride notti estive e la micragna che di sera faceva procrastinare il ricorso alla luce elettrica. Avrebbe poi scritto: «…il buio, / com’è lungo nel Sud ! Tardi s’accendono / le luci delle case e dei fanali» (Foglie di tabacco, 5). Una menzione a sé merita, infine, la velleitaria mania di molti leccesi di un tempo di emulare a perdifiato le gesta canore del loro concittadino Tito Schipa, spesso di notte. E non mi pare illogico riferire alla radicata popolarità dell’opera il nome attribuito alla succitata ragazza di vita, che Vittorio frequenta per un breve periodo. In effetti, in sincronia con la genesi del romanzo, il soprano parmense Nelly Corradi (coetanea di Bodini) raggiungeva l’acme del successo, calcando le scene proprio accanto a Schipa: è del ’45 il trionfo nel Werther, noto cavallo di battagliadell’Usignolo, che si distinse in genere nei panni della femme fatale (dalla Violetta verdiana alla Carmen). L’eco di tanti allori ne rese il nome popolare anche a Lecce. Una traccia ulteriore dell’ironia del poeta?

[Recensione a Vittorio Bodini, Il fiore dell’amicizia, a cura e con Introduzione di D. Valli, Prefazione di A. L. Giannone, Nardò (LE), Besa Editore, 2014, in “Studi e problemi di critica testuale”, n. 92, aprile 2016, pp. 317-322]


[1] Oreste Macrì, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie, Galatina, 2004, p. 23. Si tratta di un’introduzione diversa da quella apparsa  nell’edizione mondadoriana del 1983 di Tutte le poesie (1932-1970),ma vitale per la conoscenza di Bodini.

[2] Di A.L. Giannone si segnalano nella collana le curatele di Barocco del Sud (2003) e Corriere spagnolo (2013).

[3] O. Macrì, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie, cit., p. 17.

[4] Alle pp. 25 e 26 dell’edizione segnalata alla nota 1.

[5] Nel ’38, auspice Achille Starace, fu disseppellito un emiciclo dell’anfiteatro romano, mutilando piazza Sant’Oronzo.

[6] Cfr. Verso Leuca in V. Bodini, Tutte le poesie, cit., p. 215. Il bianco dei muri e il verde delle persiane (colore ritenuto deterrente per gli insetti) predominavano nei fabbricati del Salento. Esplicita quanto ironica la citazione di Verlaine.

[7] Il giovane protagonista del racconto viene vessato dai compagni per i suoi natali maremmani, essendo di Grosseto (G.). Analogamente Bodini subisce la sua città come una tara sortitagli da un fato beffardo.

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