di Gianluca Virgilio
Ecco una parola piuttosto astratta, che dice tutto e non dice niente, ma l’uomo se l’è inventata come ha inventato tante altre cose, immagini, fantasmi della mente, suscitatori di adrenalina, serotonina ed altro. Lo fa star meglio l’immaginare che lì, da qualche parte, entro la linea dell’orizzonte, c’è qualcosa da raggiungere, un fine a cui tendere, una ricompensa al difficile lavoro del vivere, la felicità. E se poi, dopo tanti sforzi, la felicità non giunge, eccoci ripiombati nell’infelicità, costretti a dare ragione ad Ennio Flaiano che nel 1945 scriveva: “L’infelicità che gli uomini comuni lamentano viene unicamente dall’errata convinzione di esistere per il raggiungimento della felicità; o che la felicità esista perché gli abitanti di questa scadentissima parte dell’Universo che è la Terra possano raggiungerla.” (Diario notturno, in Opere II, Bompiani, Milano 1990, p. 357). Siamo dunque infelici perché vittime di un malinteso? Leopardi probabilmente avrebbe acconsentito a questa diagnosi. Ed io sarei propenso a dare ragione all’uno e all’altro degli autori menzionati, se non avessi letto un piccolo e prezioso libro del compianto Domenico De Masi, La felicità negata, Giulio Einaudi editore, Torino 2022 Ebook, scomparso nel settembre scorso dopo essersi distinto come sociologo (professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma).