È facile dimostrarlo con un esempio. Il VI libro dell’Eneide di Virgilio è forse il più famoso dei dodici che compongono questa opera epica miracolosa. Il libro racconta dell’incontro di Enea con la Sibilla a Cuma e del suo viaggio negli Inferi, attraverso mostri, immagini di malattie, incontri con personaggi di fantasia e con amici del passato di Enea, il protagonista, un esule troiano approdato in Italia. Affisso il ramo d’oro sulla porta della Città di Dite, Enea entra nei Campi Elisi, dove incontra il padre Anchise, scappato come lui da Troia ma morto poi durante il viaggio. Il vecchio padre mostra a Enea il futuro di Roma, elencando ed elogiando tutti i discendenti romani dell’eroe troiano. Anche in questo frangente, Virgilio riesce nel miracolo di una poesia epica – il genere letterario della celebrazione – quasi priva di crudeltà e di guerra: l’imperialismo romano è positivo solo se è capace di “risparmiare i sottomessi” (VI.853). Poco dopo, si elogia l’eroe Marcello, generale dell’epoca delle guerre puniche: egli “rem Romanam sistet”, e cioè “aveva rafforzato, reso stabile lo stato” (VI.858). Il brano fece commuovere Ottavia minore, che aveva perduto giovanissimo il figlio Marcello, discendente di quella stessa famiglia. “Sisto” dunque indica chiaramente un movimento, lo sviluppo di una stabilizzazione. Il prefisso re- ribadisce, e semmai insiste, su questa processualità, dando infine alla parola il suo significato di ‘fermarsi opponendosi a qualcosa’. Re-sistere, dunque, come movimento di contrasto in vista di un obiettivo fermo, presente, stabile.
Lo capisce bene un frate francescano ribelle vissuto tra fine Duecento e inizio del 1300, che per tutta la vita subì il duro carcere, l’esilio in terre lontane, e poi la fuga nell’Italia dell’estremo sud, che in quell’epoca era un territorio inospitale e marginale. Si chiamava Angelo Clareno, e subì questa persecuzione soltanto perché non voleva che il movimento fondato da Francesco d’Assisi deviasse da una radicale rinuncia al potere e al possesso. Sconfitto e isolato, come il suo amico e sodale Ubertino da Casale, Angelo scrisse parole profondissime, interrogandosi sul significato che possiede il vivere come una minoranza perseguitata. Trovò il significato più profondo di questa vicenda collettiva nell’orizzonte storico: sulla lunga durata, dice Angelo, solo chi è stato perseguitato avrà ragione. La storia deve essere letta dalla parte dei vinti per comprenderne il significato, e la direzione. Pochi anni prima di morire, nel pieno isolamento e nella convinzione che tutto era ormai perduto e che bisognasse affidarsi alla lotta finale tra bene e male, scrisse al principe catalano Filippo di Maiorca una lettera appassionata, in cui ormai rifiutava esplicitamente ogni autorità ecclesiastica, affermando in maniera radicale e antiautoritaria che, in questi tempi di battaglia, «omnis auctoritas transibit ad resistentes», e cioè “tutto il potere verrà trasferito a chi resiste”. I resistenti sono i partigiani della povertà, gli sconfitti dalla parte della ragione. Il passaggio era così forte che, nel 1974, ad Assisi alcuni storici del medioevo italiani litigarono aspramente, chiedendosi se era il caso di utilizzare, per questi fraticelli (e per i loro seguaci laici, i beghini), che viaggiavano per l’Europa braccati dall’inquisizione, il termine Resistenza, quello con la r maiuscola. Si capisce: fra quei convegnisti, c’era chi quella precisa lotta partigiana l’aveva fatta. La r minuscola e la R maiuscola facevano emergere ferite recenti, interrogavano il senso di quella resistenza di frange minuscole, ma creative, del medioevo uscente.
Sul concetto di chi si oppone, in questo periodo di convulsa nascita di mondi nuovi, si era aperto come al solito un conflitto di denominazione. Contemporaneo di Angelo, Dante Alighieri si mostra – gli capita spesso – più condiscendente con i persecutori che con i perseguitati (seppure lui stesso si trovò a subire una condanna, da lui definita ingiusta: l’empatia, il grande poeta, la riservava soprattutto a se stesso). Nel descrivere la lotta contro gli eretici del Sud della Francia portata avanti da san Domenico, egli ricordava che il santo aveva colpito più forte «dove le resistenze eran più grosse» (Paradiso XII, 102). D’altra parte, il termine manteneva ben chiaro, e non lo perse mai, un aspetto militare, a segnalare la coraggiosa opposizione agli assalti del nemico. Nell’Orlando Furioso, Ludovico Ariosto ricordava l’impressione che fece al mondo il saccheggio delle truppe francesi a spese della povera città di Ravenna, che nel 1512 aveva provato a respingere le truppe d’Oltralpe: «O misera Ravenna, t’era meglio / ch’ai vincitor non fessi resistenza» (14, 9). L’episodio fu così violento che il poeta non solo si duole ancora per la città resistente, ma nota che altre, come Rimini e Faenza, presero esempio e si arresero senza colpo ferire. Quasi a dire che una resistenza sconfitta aumenta l’ira del vincitore, rendendolo più feroce. D’altra parte, dalle armi alle interiorità, Giacomo Leopardi annota velocemente, nel suo Zibaldone, che se un oggetto resiste alla propria spinta e alla propria pressione, chi pratica tali azioni è indotto necessariamente ad aumentare la propria forza, e dunque la propria volontà: «se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti.» (I.47) La resistenza, anche quella fisica, è una sfida alla potenza, stimola il conflitto, porta alla trasformazione.
Nel 2012, Walter Siti pubblica il romanzo, poi vincitore del Premio Strega, Resistere non serve a niente. Si tratta della biografia di broker/bankster, Tommaso Aricò, figlio di un truffatore coinvolto in un omicidio. Proveniente dalla borgata, Aricò vive un’infanzia infelice, caratterizzata da bulimia; ma il passaggio all’età adulta è segnato da una operazione che lo rende magro e da una laurea in economia finanziata dalla criminalità con cui era in rapporto il padre. La storia presente di Tommaso è quella di un uomo ricco, coinvolto in diverse storie sentimentali votate al fallimento: è una storia che cannibalizza ogni aspetto della vita, non offre punti di vista esterni e divora anche la letteratura. Il secondo personaggio del romanzo, infatti, è l’autore, che vive in un appartamento sotto sfratto; Aricò si offre di pagare l’affitto, ‘salvandolo’ dalla speculazione, in cambio della scrittura di una biografia. La letteratura appare quasi come un riscatto simbolico da una vita tutta schiacciata sul valore d’uso e sulla finanza. In fondo, è la grande scommessa del raccontare: Sherazade delle Mille e una notte che rinvia la morte grazie alla narrazione, o la brigata del Decameron che sfugge da Firenze sotto la morsa della pandemia. Ma la realtà del romanzo è un’altra: è quella di una economia neoliberale di tipo tentacolare, tutta basata su una ricchezza volatile: la finanza è, in fondo, una promessa di pagamento, e condivide con la scrittura l’aspetto verbale. La letteratura si discioglie, non può più giudicare una realtà nella quale anche l’individuo moderno è finito a favore del valore ‘d’uso’ delle cose e dei corpi. La periferia di Aricò, che in Pasolini manteneva un’alterità, è essa stessa un luogo addomesticato. Se non c’è un altrove, non c’è l’impegno e la fuoriuscita che permette la resistenza.
Resistere non serve a niente, quindi, se non c’è un altrove. Ma è la categoria del ‘resistere’ che ci impone di ripensare l’altrove, ci porta a lavorare su una via di fuga, un’osteria del futuro – direbbe Marx – che ci aiuta a resistere, e per cui resistere serve sempre.
[“Jacobin Italia”, autunno 2023]