Resistere serve sempre

di Antonio Montefusco

Non sono molti i libri non saggistici che hanno la parola “resistenza” nel titolo. Uno, il più famoso, e forse anche il libro dell’educazione sentimentale dell’Italia (e dell’Europa) post-fascista, è quello che riunisce le Lettere dei condannati a morte della Resistenza: libro-monumento, come ebbe a definirlo Thomas Mann, impasto di memoria del passato e tentativo di non vanificare il sacrificio di un’intera generazione.

‘Resistenza’ (e ‘resistere’) è un caso interessante di parola in movimento, in cui non è la realtà che plasma la parola ma è quest’ultima che si impiastriccia del reale, si modifica e forse contribuisce essa stessa a modificare ciò che la circonda. La resistenza come virtù, azione e caratteristica finanche fisica e materiale, con la r minuscola, e la Resistenza con la r maiuscola, quell’ampio fenomeno storico europeo di lotta al nazi-fascismo, che pur nella sua irripetibilità si pone a modello di ogni lotta di liberazione, si parlano, si trasformano a vicenda.

Spigolando su internet, si trovano etimologie fantasiose e scarsamente fondate, che tendono ad amplificare l’aspetto ‘statico’ della parola. Ma la storia è più complessa. Per essere tecnici: resistere si compone di due parti, un prefisso (più precisamente un preverbio) re- e un tema -sist(ere), che è presente nel verbo: sisto.  Quest’ultimo è in relazione con sto, che significa ‘stare’, e però i parlanti, nel raddoppiarlo (da sto a sisto) hanno voluto sottolineare che l’azione espressa non era momentanea ma ‘processuale’, continuativa. ‘Stare fermo’ (espresso da sto) è diverso da ‘fermarsi’. Non ha niente a che fare con ‘stare’ e quindi con la staticità.

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