Un trittico di medaglioni che non delimita soltanto il perimetro di una scuola con i suoi presupposti metodologici, dettati da un’esperienza estetica ricca, bensì rischiara talune angolature ombrose dei profili richiamati. La ratio del volume, infatti, pare attingere forza esemplare dal rigore che i tre critici mantennero anche quando batterono sentieri letterari da loro “poco frequentati”. È il caso di Vincenzo Monti, uno degli autori che Russo «sembra aver affrontato piuttosto per un compito impostosi che per un’adesione spontanea dell’animo» (Fubini); un confronto in due tempi: prima un intervento nel ’28 per il centenario montiano e, in seguito, il saggio del ’51 apparso su “Belfagor”. Il piglio moralista di Russo matura in quell’intervallo, da un giudizio vincolato all’ipoteca desanctisiano-crociana, che risalta nella formula di Monti «poeta della poesia», alla visione storicistica e organica del secondo lavoro, intesa a ricollocare l’autore nel patrio ambiente romagnolo, per giustificarne le «facili e costanti conversioni» (p. 177), il candido conformismo, la volubilità da sempre imputatagli. Un progresso metodologico del Russo che già si era potuto cogliere nell’edizione del ’34 del saggio su Verga. Lo segue nel solco dello storicismo e della «filologia integrale» Mario Marti, qui colto lungo un “sentiero” sovente percorso e ben oltre le frontiere di antiche perplessità. Le predilezioni personali (Dante e Leopardi) si intrecciano, anzi, in tempi precoci con una «famelica curiosità» verso il Novecento letterario, quando le “tre corone” della Nuova Italia (Carducci, Pascoli, D’Annunzio) fissavano il non plus ultra delle storie letterarie. A spingere Marti a cimentarsi con la lettura dei contemporanei fu decisivo, nel ’43, l’ingresso di Raffaele Spongano (un tempo suo professore di liceo) nella redazione della rivista sansoniana «Leonardo». Fissato questo terminus post quem Giannone ricostruisce, non senza commosse reviviscenze memoriali, i molteplici incontri di Marti con autori novecenteschi, in primis conterranei di spessore europeo più che nazionale; un fitto dialogo filologico spesso nutrito da personale amicizia, come nel caso del poeta orfico Girolamo Comi, di cui Marti condivise la stagione dell’Accademia Salentina e dell’«Albero». Sia nel misurarsi con Bodini o con i poeti in vernacolo (De Donno, Gatti) sia nell’acuta rilevazione di correnti disarmoniche in seno al comiano «spirito d’armonia», si distinguono almeno due costanti inderogabili per Marti: «l’abito mentale dello ‘storico’ piuttosto che del ‘militante’» (p. 192) e l’immunità da qualsiasi attitudine provincialistica o di vieto campanilismo.
Una pari sensibilità ha contraddistinto Donato Valli (di recente scomparso), discepolo di Comi e di Marti, nonché maestro ispiratore della scelta novecentista dello stesso Giannone. Nell’ultima predella di questo trittico vivace, mediante puntuali coordinate bibliografiche e qualche romantica concessione al ricordo, l’autore non esita ad adottare, per definire il profondo sodalizio tra Valli e Comi, la celebre formula di «una lunga fedeltà», già coniata da Contini per il suo rapporto con Montale. I contributi della seconda parte del libro, seguitando una lettura à rebours, ci immettono nell’officina di un “altro” Novecento, animato da alacre sperimentalismo e da un immaginario popolato di miti spesso relegati in un limbo neutrale, estraneo alle sistemazioni canoniche. A questa altezza le “confessioni” cedono il passo alle “battaglie”, le stesse di Valli, per ricomporre entro un quadro letterario nazionale, se non addirittura europeo, figure e vicende letterarie di matrice salentina, sullo sfondo della complessa dialettica tra la storia e il “particulare”. Nel saggio Ada Negri e la «Rivista d’Italia», ad esempio, si ravvisa la necessità di lumeggiare dinamiche a lungo ignorate tra i cosiddetti “grandi” e i “minori”, e di scalfire lo stereotipo che ridurrebbe i secondi a «umili portatori d’acqua» (Valli). Nello specifico viene sottolineato il ruolo di innovatore che in campo editoriale seppe incarnare il narratore e biografo salentino Michele Saponaro, in occasione del rilancio del periodico citato. Fu proprio l’autore di Avventure provinciali, infatti, ad invitare la poetessa lodigiana a collaborare alla redazione e a legarla all’impresa, sotto gli auspici dell’amicizia e della stima, per il biennio 1918-19. Dall’esame del breve carteggio, condensato quasi interamente in quell’arco di tempo, affiorano reciproci giudizi critici, retroscena inediti di apporti sfumati (come nel caso di Rebora) e notizie preziose sull’iter compositivo dei testi della Negri apparsi sulla rivista, fioriti in quegli anni di fervida creatività parimenti segnati da grandi dolori personali. Incontri, scambi di idee, ponti inarcati tra i poli culturali e la periferia, in nome di una visione meno eliocentrica delle lettere, sostanziano la totalità dei generi qui affrontati.
Assai significativa è la testimonianza fornita dall’odeporica di Anna Maria Ortese nei tre reportage pugliesi sulla condizione femminile, e delle tabacchine in particolare, poi confluiti nel postumo La lente scura (Adelphi 2004). Immune dal retoricume meridionalistico, l’inchiesta della Ortese si traduce in una vera “catabasi”, dove il residuo lirismo e l’arguzia dei tropi balenano come lampi sopra un mondo dipinto di nero. Neri gli abiti e gli occhi spenti di «una vita-non vita» (p. 114). Si scopre nel «contrasto tra l’incanto dei luoghi e la condizione degli abitanti» (p. 120), in un simbolismo capovolto, che, se “il mare non bagna Napoli”, nemmeno il sole scalda il tacco d’Italia, poiché un’umanità negletta di donne e bambini ne ignora il calore. Quasi sulle orme della Ortese, alle «soglie di un mondo nero», Giannone conduce la propria inchiesta critico-letteraria nel tentativo di sottrarre all’inadeguata orbita regionale universi poetici dotati di un potere di irradiazione ben più vasto. È il caso di Vittorio Bodini, il cui profilo di intellettuale europeo trova ulteriore conferma in un recente convegno di studi tenutosi a Valencia. Se ne illustrano in questa sede, a partire dal Bildungsroman giovanile Il fiore dell’amicizia, i tanti aspetti epifanici della migliore produzione in prosa e in poesia, finora oscurata dai riconoscimenti in qualità di ispanista. Dalla individuazione dei tempi di stesura e dai lineamenti autodiegetici dell’intreccio fuoriesce l’anima di una città che si staglia con nitore realistico. La Lecce di Bodini (non ancora narrata in chiave barocca), oggetto di amore-odio e dedalo da cui fuggire per lidi lontani, arricchisce la geografia ideale del nostro Novecento che comprende (per citare alcuni luoghi dell’anima) la Trieste di Saba, la Genova di Montale, la Luino di Sereni. Un romanzo che, alla luce di un diffuso sondaggio intratestuale, conterrebbe in nuce i tratti distintivi e i motivi del migliore Bodini.
Una cura interpretativa non inferiore viene destinata al caso letterario di Rina Durante e del suo romanzo La malapianta (1964), ambientato nelle campagne riarse e allucinate del Salento. Una saga rusticana sul filo della tragedia facilmente ascrivibile alla galassia neorealistica, in virtù del contesto meridionale e dell’umile estrazione sociale dei personaggi, con punte espressionistiche di colore tozziano. Tuttavia, le rilevazioni narratologiche condotte sul testo, a partire dalla composita polifonia che lo governa per giungere alle tecniche, ai registri espressivi, alla lingua e allo stile, rimarcano la distanza da opere come La malora di Fenoglio o Paesi tuoi di Pavese. Cruciale la testimonianza della stessa Durante circa l’originario impianto neorealistico e una riscrittura ispirata dai suggerimenti di Vittorini, che negli anni del «Menabò» si proiettava oltre quell’esperienza. Più che la miseria a tormentare i membri della famiglia Ardito sono i “mali oscuri” della modernità: l’alienazione, il dominio assoluto della Τύχη, l’ossessione della morte e, soprattutto, l’aridità interiore. Ne deriva un microcosmo contadino malato di borghesia. Tutte riflessioni esistenziali che animano la poesia dialettale di Nicola G. De Donno, esponente di una tradizione rimasta (almeno per la Puglia) sempre ai margini del canone, cui è dedicato un ampio saggio che si nutre del confronto diretto con i testi.
Veniamo, infine, ai tre studi sul patriota salentino Sigismondo Castromediano, duca di Cavallino, autore di Carceri e galere politiche, un fulgido capitolo della memorialistica risorgimentale a lungo ignorato, che apre una finestra su quello che Parenti etichettava come “Ottocento sconosciuto”. Tali contributi (che danno corpo alla prima sezione), oltre a veleggiare sulla scia delle celebrazioni per il CL dall’Unità d’Italia, si ricollegano alla carica di presidente del Centro Studi «S. Castromediano e G. Rizzo» che Giannone tuttora ricopre. L’eccelso valore della testimonianza del Duca sull’ignominioso calvario tra i bagni penali di Napoli, Procida, Montefusco e Montesarchio contrasta con il silenzio del canone e, in generale, con la reductio del corrusco quadro di lotte nel Regno delle due Sicilie alle sole Ricordanze del Settembrini. Con il supporto di continui riscontri testuali viene imbastita una fitta comparatio con gli archetipi del genere, innanzitutto con Le mie prigioni di Pellico. Per quanto Castromediano fosse distante dall’«ingegno elegiaco» (Tenca) del martire dello Spielberg, alcune similarità di luoghi paralleli rivelano il comune «gusto del bozzetto» (p. 28), mentre la maggiore affinità con Settembrini, nella teleologia pedagogica della testimonianza presso i posteri e nella denuncia dei soprusi, si va attenuando quando l’universo carcerario viene sottoposto dal letterato napoletano ad analisi “beccariane”, spia di una paideia illuministica assente in Castromediano. Il confronto si estende ai memorialisti del Mezzogiorno che furono compagni di sventura del Duca, anch’essi iniquamente ostracizzati dai manuali: i nomi di Cesare Braico, Antonio Garcea, Nicola Palermo oggi risuonano come dei “carneadi” manzoniani. Un confronto tra testimoni che suscita maggiore interesse al cospetto di episodi convergenti. Nel terzo saggio la figura di Castromediano si staglia con cristallina autenticità, oltre gli artifici diegetici, nel romanzo di Anna Banti Noi credevamo, i cui debiti verso l’opera del salentino sono rigorosamente segnalati. Se, come sosteneva Marti, «”provinciale” non è mai l’oggetto della ricerca» ma il metodo con cui la si conduce, questi contributi allora sembrano superare una prova ardua.
[Recensione a Antonio Lucio Giannone, Sentieri nascosti – Studi sulla letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016, in « Studi e problemi di critica testuale », 97, ottobre 2018, pp. 354-358]