In linea generale, si conferma l’impostazione che abbiamo già definito di economia dei sussidi: la crescita economica viene demandata alla speranza che le imprese investano come risposta agli sgravi fiscali. Si tace sul fatto che, come da Keynes in poi è noto, le decisioni di investimento sono essenzialmente trainate dalle aspettative di profitto e che queste dipendono dall’andamento della domanda aggregata. Il Governo Meloni porta questa posizione alle estreme conseguenze, estendendo i sussidi alle sole imprese, restringendone l’accesso ai lavoratori e soprattutto ai poveri. Alcuni analisti hanno correttamente fatto osservare che, nel capitalismo contemporaneo, la vera lotta di classe non è più nella sfera della produzione, ma nel fisco: la ripartizione di spesa pubblica e della tassazione riflette, infatti, il potere contrattuale di lavoratori e capitalisti. Il Governo prende posizione decisamente a favore dei secondi e lo fa, con la massima evidenza, nella gestione della riduzione del cuneo fiscale (la differenza fra salario lordo e salario netto). A riguardo, occorre considerare che: 1) i lavoratori che percepiscono più di un dato reddito lordo annuale non hanno alcun beneficio dalla riduzione del cuneo fiscale. In particolare, l’esenzione è aumentata al 7% per coloro che ricevono una retribuzione imponibile mensile inferiore a 1.923 euro. Si consideri che lo stipendio medio di un lavoratore italiano, al 2022, su fonte INPS, è di 1700 euro (con inclusione del settore pubblico, dunque meno nel privato, in media). Ciò significa che a trarre vantaggio da questa misura è solo la platea dei lavoratori più poveri, pari a circa 14 milioni su un totale di circa 25 milioni di occupati; 2) Se anche si dà credito al Ministro Giorgetti sull’aumento di cento euro netti al mese per i lavoratori beneficiari, occorre considerare la riduzione della quantità e qualità dei servizi pubblici (dunque, del salario indiretto) per quantificare l’esatto vantaggio. A beneficiare del provvedimento sono, dunque, non tutti i lavoratori, peraltro con effetto quantitativo incerto, ma sono soprattutto le imprese, in quanto spendono meno per il versamento dei contributi. I lavoratori beneficiari perdono per due ragioni: meno contributi versati incidono sulla pensione; l’aumento dello stipendio netto determina un aumento della tassazione IRPEF sul mancato sgravio fiscale. Il tentativo di generare crescita attraverso la riduzione del cuneo fiscale non è nuovo e risale al secondo Governo Prodi, subendo poi un’accelerazione con il Governo Renzi. La teoria si fonda sul verificarsi di due effetti: la riduzione del cuneo fiscale consente maggiori investimenti o guadagni di competitività; l’aumento della competitività accresce le esportazioni. Non si è mai verificato, nell’ultimo ventennio, un consistente aumento del Pil imputabile alla detassazione sul lavoro. In più, la tesi governativa è smentita dai confronti internazionali: la Germania – Paese tradizionalmente identificato come locomotiva europea – cresce sistematicamente più dell’Italia, avendo un cuneo fiscale maggiore del nostro. Stando ai calcoli del MEF, confermare il taglio del cuneo fiscale costa 11,4 miliardi di euro, che sarebbero più che sufficienti per accrescere l’occupazione (di circa 800.000 unità) in via diretta, mediante un programma straordinario di assunzioni nel pubblico impiego. Con il vantaggio di uniformarlo, per dimensione ed età media dei dipendenti, alla media europea, di stimolare l’efficienza del settore privato, e di consentire la piena ed efficace realizzazione del PNRR.
[“Gazzetta del Mezzogiorno”, 25 settembre 2023]