Tuttavia, le note di questi strumenti, generano nel lettore una sensazione di spaesamento in quanto hanno un andamento che inaspettatamente offre dei vuoti e lascia brancolare nel buio. Ed è proprio in questo buio che si crea la distonia: al buio non possiamo vedere le cose, ci sentiamo soli e inutili, il senso di solitudine viene aumentato dall’incomunicabilità che c’è tra le persone, dalla mancanza di empatia, dal fatto che le parole, il mezzo primario per la comunicazione, si rivelano «impolverate», vecchie, hanno perso il loro valore originario e quindi si sono svuotate di significato.
Percepiamo il vuoto, soffriamo l’assenza dei nostri simili a causa di un’incomunicabilità che noi stessi abbiamo scelto, rifiutando di guardare negli occhi le cose vere della vita, rifugiandoci in un mondo in cui siamo tutti maschere perfette che sbrigano affannosamente i propri impegni e non si fanno cogliere di sorpresa da niente perché preparati a tutto. Così anche nella folla ci si sente soli, ci si perde.
Le parole stesse diventano una maschera, una corazza, uno strumento per controllare il mondo che ci circonda, senza renderci conto che la verità delle cose sta più in profondità, là dove le parole non servono. Ma noi preferiamo restare in superficie, orgogliosi della nostra vanagloria e soddisfatti della nostra perfezione superficiale.
Fatte queste considerazioni il poeta effettua una scelta, si spoglia di qualsiasi responsabilità, smette di voler obbligatoriamente trovare un senso alle cose evanescenti che coglie solo per qualche istante, prima che il paesaggio muti ex novo, e decide di ‘tessere’ con cura versi di parole vuote, privi di un messaggio: ‹‹voglio scrivere poesie senza parole, voglio sciogliere // versi nell’aceto, versi nel fango, voglio parlare // senza aver nulla da dire, frasi magnificamente // vuote, nuove, sole, nere o piene di silenzi grafici, // piene di vuoto, voglio scrivere poesie di cui sia // sottratto il senso, senza // valore di verità, senza responsabilità, // versioni vanagloriose del vento›› (p. 54).
Nonostante la scelta di Barbieri di utilizzare parole vuote, le sue riescono a viaggiare allo stesso ritmo dei paesaggi che non si fermano e cambiano continuamente. Anche se l’uomo è «polvere nera» che sta per essere risucchiata via da un’aspirapolvere, nei sporadici attimi concessi, i suoi occhi possono godere dei peschi rosa di marzo, delle foglie nuove sui rami, dei corsi d’acqua e delle nuvole sotto le quali si stendono campi verdi, fino a percepire un messaggio di verità dalle cose della natura, ad esempio dal mare: ‹‹se guardi il mare a lungo puoi capire il messaggio // il respiro si fa intenso e le cose rispondono // è quella dei giorni fausti questa luce attorno // che accarezza gli oggetti nel mondo e non li brucia // il mare ti risponde quando lo sai guardare // non ti spiega il messaggio ma lo si sente dentro›› (p. 42).
[Recensione a Daniele Barbieri, Distonia, Calimera (LE), Kurumuny, 2018, pp. 94, euro 10.00 – ISBN: 9788885863125]
Questa recensione mi ha lasciato dentro una irresistibile voglia di leggere il libro, voglia di catturare con lo scrittore, quei sporadici attimi concessi in cui anche i miei occhi possono ammirare le bellezze del creato
riuscendo così a lasciare la superficialità, facendomi cogliere dalla sorpresa e imparando a guardare, non a vedere ciò che mi circonda.