Questo è un primo punto sul quale il Ministro Fitto dovrebbe provare a invertire la rotta. La seconda causa del fallimento delle ZES è da ricercarsi nel funzionamento della pubblica amministrazione italiana, che ha un numero di dipendenti inferiore alla media europea (molto basso in quasi tutte le regioni del Sud), con età media avanzata (55 anni) e basso titolo di studio. L’evidenza empirica mostra che il problema ha natura quantitativa e qualitativa: abbiamo troppo pochi dipendenti pubblici e ne abbiamo troppi poco motivati al lavoro. E’ dimostrato che l’assunzione di personale qualificato di per sé contribuisce a migliorare molto la produttività del settore pubblico, comunque misurata. Si potrebbe provvedere a un piano straordinario di assunzioni di dottori di ricerca nel settore pubblico meridionale, per invertire la rotta anche su questo aspetto. Infine, vi è da considerare che, nell’esperienza italiana, non è stato previsto alcun rapporto privilegiato e istituzionalizzato fra Università e territorio né nelle 8 ZES preesistenti né nella ZES unificata. Si potrebbe creare, per questo obiettivo, un albo ZES dei tutor accademici, eventualmente suddiviso in distretti locali, per l’accompagnamento di imprese residenti nell’area (suddivisa per comparti da definire, sulla base delle sedi universitarie disponibili) in percorsi di internazionalizzazione e innovazione. Si tratta di una innovazione organizzativa solo apparentemente marginale, pensata sulla base della positiva esperienza di alcune ZES spagnole, che potrebbe, però, assecondare o trainare le decisioni di investimento delle imprese localizzate nelle zone economiche speciali. Il tutor accademico potrebbe utilmente svolgere la sua “terza missione” (ora oggetto di valutazione da parte dell’ANVUR) per fornire aiuto alle imprese – prevalentemente quelle più piccole – nell’adozione di innovazioni (qui tornano utili l’ingegnere e l’economista) e nell’internazionalizzazione (potendosi prevedere il coinvolgimento di docenti di economia, marketing e di lingue straniere).Si tratterebbe, per quest’ultimo provvedimento, di dotare il Mezzogiorno di un vantaggio competitivo non limitato solo all’aspetto fiscale e del quale, peraltro, non godono moltissime ZES esistenti in altri Paesi. La qualità delle nostre sedi universitarie – come si cerca di fare ormai da più di decennio – potrebbe essere utilmente messa a disposizione dello sviluppo economico e civile delle regioni meno sviluppate del Paese, peraltro con costi pressoché irrisori a carico del bilancio pubblico. Vi è, infine, da considerare che molti svantaggi del Mezzogiorno dipendono dall’eccessiva estensione delle sue aree interne. La strategia vigente su queste ultime presenta un limite, che, se adeguatamente affrontato in un’ottica di sinergia con la riforma delle ZES, può utilmente liberare il Sud da un problema non secondario. Si tratta di fare della fusione dei comuni un provvedimento di accorpamento autoritativo: la disciplina attuale, infatti, prevede soli incentivi all’accorpamento (da realizzarsi tramite referendum regionale), su base volontaria, di Enti locali. I vantaggi sono evidenti e diffusi, a partire dallo sfruttamento di economie di scala (l’ampliamento delle dimensioni produce costi di produzione decrescenti dei servizi pubblici), ma la volontarietà della scelta lascia ancora troppo spazio a rivendicazioni identitarie che, troppo spesso, nascondono il solo obiettivo di mantenere il potere locale in centri urbani di piccola o piccolissima dimensione.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 18 settembre 2023]