Il libro contiene sedici contributi, tre dei quali ripropongono gli interventi degli amici e studiosi di Rina — Gino Santoro, Massimo Melillo e Carlo Alberto Augeri — che hanno animato la tavola rotonda a conclusione dei lavori, e dai quali invece in questa sede prendiamo le mosse per tratteggiare la figura della ‘raccontatrice’ pugliese. Melillo e Santoro evidenziano il modo militante in cui Rina intendeva l’attività intellettuale, mentre Augeri si interroga sul suo ‘come’ narrativo. Il primo sottolinea la matrice marxista della riflessione politica e della produzione intellettuale della scrittrice salentina, “che assume in sé il conflitto sociale tra sfruttati e sfruttatori” (233). Il secondo applica all’intera attività di Durante la cifra dell’impegno civile, mentre il terzo la definisce “scrittrice che guarda antropologicamente il mondo umano da tradurre in racconto” (241). L’interesse per il tarantismo e la musica popolare, quello per la letteratura, il teatro e il cinema rispondevano infatti tutti alla stessa domanda: in che modo l’arte e la letteratura possono supplire a quanto non viene fatto da una politica diventata oramai mera gestione del potere? A ben riflettere, osserva Santoro, “Gli amorosi sensi, ma anche Tutto il teatro a Malandrino e persino La malapianta e Il Tramontana sono la ‘cronaca di una devastazione annunciata’ di ambienti e culture del Salento” (228). Tutti e quattro i titoli menzionati sono opere di narrativa, e su tutti e quattro, a riprova che si tratta degli esiti letterari della raccontatrice di Melendugno che maggiormente affascinano gli studiosi, ritornano le riflessioni di numerosi altri contributi del volume.
Ci si soffermano quelle di Goffredo Fofi, che si serve della dicotomia Manzoni-Verga per collocare l’autrice del racconto Il Tramontana e del romanzo La Malapianta — pubblicati rispettivamente nel 1963 e nel 1964 — sul versante dello scrittore siciliano, quello “di un realismo forte e crudo” (18). Ad essere raccontate con stilemi che negli anni di Bianciardi e Mastronardi apparivano “fuori tempo” (19) sono infatti la fame, la miseria e la rassegnata disperazione di chi le subisce, tanto che lo stesso Antonio Lucio Giannone, pur evidenziando gli aspetti sperimentali e la tematica esistenzialista del romanzo, riconosce come esso di primo acchito faccia pensare ad una tipica opera neorealista (44). Del rapporto con la tradizione, “con la memoria dei vinti, della cultura delle classi non egemoni” (31) parla pure nel suo intervento sui racconti di Amorosi sensi (apparsi nel 1996) Alessandro Leogrande, il quale definisce Rina “una narratrice dei margini” (37). Questo commento trova eco nel contributo in cui Fabio Moliterni individua una medesima ricorrenza nei racconti degli anni Sessanta e Settanta dispersi in varie riviste, e cioè “l’assunzione del punto di vista […] di soggetti socialmente marginali, strampalati e ribelli, minoritari, emarginati o esclusi […] dalla forma-romanzo ufficiale” (130). Su Amorosi sensi — il cui titolo avrebbe in un primo tempo dovuto essere Vite superflue — si esercita anche la scrupolosità filologica di Patrizia Guida, quando arriva a determinare i ‘topoi’ dell’intera raccolta, che sono poi in gran parte quelli caratterizzanti tutta la narrativa della Durante, in “una modernità devastatrice, un passato che sopravvive nei suoi aspetti folklorici, il contrasto fra ricchi e poveri, l’ascesa sociale del proletariato contadino ma anche operaio, il ruolo dei politici” (158).
Il titolo che tuttavia rappresenta meglio di ogni altro l’originalità della cifra stilistica e l’idea di letteratura propria della Durante è Tutto il teatro a Malandrino: vita e spettacolo in un paese del Salento, pubblicato nel 1977. Si tratta di un’opera in cui la contaminazione di culture e di generi letterari, nota Emilio Filieri, “si giustifica nell’approccio che tiene conto della correlazione esistente tra le componenti strutturali del testo […] e lo ‘spazio culturale’ ” (180). Nato infatti probabilmente come raccolta di racconti, il romanzo non si lascia collocare in un genere preciso e rinuncia a porsi davanti agli occhi del lettore come pura finzione, trasformando in materia narrata la ricerca demologica dell’autrice, in modo da mantenere — in una sorta di ‘teatro nel teatro’ — quell’“impronta fortemente testimoniale e documentaria” evocata da Eugenio Imbriani (100). Vincoli editoriali non permettono di indugiare sui contributi dedicati da Beatrice Stasi, Simone Giorgino, Raffaela Aprile, Giovanna Scianatico, Maria Teresa Pano e Franco Martina ad altri aspetti della produzione, degli interessi e delle passioni di Rina Durante (il radiodramma, la poesia, il giornalismo, la Grecia e l’Albania, il meridionalismo). Rimandiamo perciò ad uno scandaglio diretto della meritevole iniziativa curata da Antonio Lucio Giannone, un’opera indispensabile per avvicinarsi ad una figura della cultura italiana del Novecento rimasta troppo a lungo lontana dal discorso critico.
[Recensione a Rina Durante. Il mestiere del narrare. Atti del Convegno Nazionale di Studi (Melendugno-Lecce, 18–19 novembre 2013), a cura di Antonio Lucio Giannone, Lecce, Milella, 2015. in “Quaderni di Italianistica”, Canadian Society for Italian studies, vol. 37, n. 2, 2016, pp.267-270]