Note critiche su Luigi Fulvi: arcaicità e dimore

di Alberto Veca, Francesca Pensa, Antonio Musiari, Antonio Antonaci, Mauro Panzera, Mauro Corradini, Floriano de Santi

Alberto Veca

Dimora arcaica, 1990, pietra arenaria, 35×25 x 60cm.

Dimore – Gennaio 2009

La scultura di Fulvi seleziona figure elementari, primarie dell’architettura, intesa come omogeneo intervento dell’artificio nel paesaggio, frutto della mente più che dell’imitazione della realtà, della sua storia. È un indagine che trova il suo necessario complemento nel materiale costantemente adottato, l’arenaria, che presenta nella sua fisionomia altre storie, ricco di vicende tradotte nella durezza della pietra. Interrogarla, nel senso di passare dalla superficie alla profondità, è esercizio prima di tutto di rispetto nei confronti della materia: nulla di artefatto se non il valore del volume che, da una forma originale, integra, conosce progressivamente aggiustamenti e correzioni fino alla figura conclusiva che mantiene, come punto di vista privilegiato, la frontalità ma da questa si emancipa con smussature, fenditure capaci di suggerire anche la lettura della profondità, il corpo interiore del volume.

Sono sculture senza decorazione, alla soglia dell’essenziale delle coordinate primarie della verticale e dell’orizzontale, appunto della costruzione, che però si presenta visibile e per tanto vivibile per i tagli che, diversamente, indagano la forma, ne offrono ulteriori letture.

Questo il senso del titolo accordato al ciclo, appunto ‘Dimore’, come volumi con cui l’uomo entra in relazione: date le dimensioni, ma non solo per questo, sono ‘modelli’ con cui è possibile paragonarsi nel nostro agire, anche nel nostro riferirsi all’architettura che spesso subiamo in cui il décor a volte risulta prevalente rispetto alla funzionalità e all’essenzialità.

Il richiamo alle figure essenziali del muro, della porta, della finestra è un modo di confrontarci di nuovo con parole di base.

[Testo presente nel catalogo della mostra ‘Borgese e Fulvi, Mediterraneo: tra arcaicità e mito’ a cura di Alberto Veca presso il Museo della Permanente di Milano a Gennaio 2009.]

***

Per l’esposizione che Luigi Fulvi ha impaginato negli ambienti del Castello Angioino di Gallipoli si può parlare di un incontro in sintonia tra la realtà architettonica, il territorio che la circonda, e una operazione di scultura contemporanea che da questa realtà ha tratto la materia di lavoro (l’arenaria) e la stessa semplicità e monumentalità delle immagini.

Per chi ha negli occhi il paesaggio delle “pietrefitte” e dei “menhir”, una integrazione così sintonica fra naturale e artificiale, fra presenza dell’uomo significativa e nello stesso tempo limitata e non offensiva, guardare le sculture di Fulvi significa riconoscere una dipendenza e una inevitabile differenza. E la dipendenza può essere cercata nella primarietà delle forme che Fulvi ricerca: un andamento verticale, una colonna, un elemento architettonico portante, o un andamento orizzontale, la facciata, il muro, sono i temi affrontati.

L’idea di costruire, di lasciare una presenza, per un uso fantastico, per immaginare un segno umano è perseguita da Fulvi nello sbozzare e nell’assemblare i blocchi di arenaria: come nella tradizione della scultura moderna e nello stesso uso tradizionale del materiale, è il blocco stesso, la sua conformazione, la sua vena, le asperità, a determinare e suggerire l’immagine definitiva.

Si compie in altri termini una sorta di adeguamento fra alcune figure semplici di natura architettonica (appunto la facciata, il pilastro), le loro corrispondenza con una geometria solida che recuperi l’essenziale (l’orizzontale e la verticale) dell’oggetto nei confronti dell’uomo, e l’estrema varietà del materiale utilizzato.

Dal punto di vista figurativo l’arenaria si presenta come materiale estremamente ricco e suggestivo: la compressione della sabbia nel tempo, l’emergere al suo interno di elementi organici ne fanno un materiale vivo, sensibile alla vista come particolarmente duttile alla lavorazione.

Su questa base di partenza Fulvi opera in modo significativamente discreto: la figura cui vuole giungere non è tanto qualcosa di applicato al materiale, ma è la sessa vena a suggerire una figura, l’accenno a un aggetto o a una profondità nella composizione complessiva come nel particolare.

È dall’incontro fra idea, immagine di scultura – certamente un momento che vuole celebrare se stesso, che vuole esaltare, far capire la primarietà della figura e la complessità del materiale – e lavoro diretto sul blocco, modo in cui l’arenaria, quel determinato pezzo, risponde alla mano che lo sgrossa, che la scultura prende la sua fisionomia.

Si può allora a buon diritto parlare di una figurazione nella scultura di Fulvi che ha i suoi termini di riferimento nell’abbandono di qualsiasi immagine “esterna” e nell’identificazione di alcune figure-guida che il materiale può declinare e diversificare e le cui radici affondano nell’essenzialità della architettura spontanea, primitiva.

E questo recupero diventa particolarmente evidente e significativo quando le “architetture” di Fulvi vengono messe a confronto, sono esposte vicino al paesaggio che le ha determinate. Ma non si tratta comunque di un omaggio nostalgico o archeologico a un passato pure amato e riletto: il desiderio di costruzione, di far rivivere tradizione e naturale nasce da una attenzione al materiale, da una sua investigazione che è preoccupazione e esigenza della contemporaneità.

[Testo di presentazione della mostra ‘Sculture’ presso il Castello Angioino di Gallipoli ad Agosto 1981.]

***

Anche per Luigi Fulvi, come per la parte più attenta di una ricerca sulla scultura, il problema di fondo è quello del rapporto che esiste tra materia scelta e figura, oggetto risultante. È questo, se vogliamo, un distinguo pregiudiziale, che si può ulteriormente approfondire una volta che si consideri come Fulvi abbia scelto una pietra, l’arenaria, fortemente caratterizzata come qualità e possibilità operative e come impatto figurale, un impatto in cui l’impurità della pietra, la sua organicità risulta a volte di importanza primaria.

E insisto sul carattere “scelto” e sul carattere “trovato” della pietra perché da questo aspetto discende e si traduce la figurazione, il modo in cui l’oggetto composto si presenta.

Si può parlare allora in Fulvi, di una particolare forma di “figuratività” fondata soprattutto su due caratteristiche fondamentali: una più generale contrapposizione tra forma “naturale” e forma definitiva, come risulta dalla lavorazione e dall’assemblaggio; e una più limitata contrapposizione fra la texture mantenuta nella sua consistenza originale, o limitatamente regolarizzata, e la superficie liscia, resa artificiale dall’opera di pulitura; esito quest’ultimo, come il precedente d’altra parte, incerto, non perentorio.

Invece che immagine, discorso, applicati o forzati sulla pietra, il procedimento di Fulvi è quello della ricognizione del materiale, della sua scelta, sotto forma di frammento, scheggia o lastra, e quindi dell’intervento scultoreo, di sgrossaggio, pulitura, assemblaggio, estremamente parco, capace cioè di modificare una possibile “forma” esistente nel naturale fino alla sua evidenza immediata.

In altri termini il “disegno”, che regola la scelta del blocco, e l’attività manuale che lo modifica nascono contemporaneamente, in sintonia con le qualità materiali e figurali della pietra.

Questa stretta connessione permette con una certa naturalezza a Fulvi di proporre un contrasto fra “naturale e artificiale, fra intervento diretto, di lettura, di osservazione del dato, altrimenti paralizzante, incapace di riassumersi in una unità plastica. Proprio la “discorsività” della pietra, la sua organizzazione texturale allo stadio naturale e la sua “imprecisione” allo stadio modificato pone in modo continuo, armonico, le forme e le figure che l’attenzione naturale e l’attenzione artificiale producono.

Nascono in questo modo, assecondando la forma originale del frammento o assemblando frammenti, figure plasticamente semplici, essenziali, spesso al limite della frontalità, e quindi della negazione tridimensionale, progetti di una architettura sottilmente intellettuale e contemporaneamente primitiva, alla radice.

[Sculture, incisioni Testo di presentazione della mostra ‘Sculture, incisioni’ presso la Galleria Nuovo Spazio 2 di Venezia a Marzo 1980.]


Francesca Pensa

Dimora Arcaica,1991, pietra arenaria, 50 X 22 X 50 cm.

Il percorso artistico dello scultore Luigi Fulvi – 2005

Il percorso artistico di Luigi Fulvi appare, fin dai suoi esordi, caratterizzato e fortemente collegato alla materia plastica scelta per la creazione espressiva: è l’arenaria, la pietra dei territori mediterranei delle origini dell’autore, che permette la realizzazione delle prime prove, secondo una dimensione formale che lo scultore andrà coerentemente approfondendo in tutto il suo itinerario poetico.

In questa fase di partenza, riferibile ai primi anni settanta, Fulvi crea infatti opere nelle quali molti elementi preannunciano gli esiti successivi del suo lavoro: l’artista indugia però su andamenti curvilinei e, in alcuni casi, insiste su un dialogo tra pieni e vuoti, secondo scelte formali che saranno successivamente ripensate: già stabilita è la preferenza per un linguaggio visivo apparentemente collegabile all’astrazione, sebbene in esso possa già intravedersi un lontano ricordo di osservazione del reale.

Nel 1973, Fulvi compie un’operazione particolare, definita Arte Natura: il tronco di un monumentale ulivo ucciso da un incendio viene “smontato” e trasportato in studio, trasformandosi in opere d’arte. In questo processo creativo possono leggersi riferimenti al clima del tempo, ai recuperi del Nouveau Realisme e ai richiami, più precisi e riconoscibili, all’Arte Povera. Tuttavia, nella ricerca e nella metamorfosi di questo antico albero, è possibile evidenziare anche altro, soprattutto in relazione con l’opera di Fulvi, e cioè  quella attenzione all’essenza stessa della materia scultorea, alla sostanza definita da una storia, secondo un’idea che condizionerà molta parte della produzione dell’artista; continua, frattanto, il lavoro sulla pietra e, dopo una fase nella quale appaiono forme e segni che evocano tendenze di ascendenza informale, con la seconda metà degli anni settanta Fulvi giunge alla completa maturazione del proprio pensiero artistico.

L’autore realizza varie opere, che non di rado intitola Composizione o Costruzione: in esse, compare una struttura ripetuta che fa ricorso a linee che si intersecano ortogonalmente creando campiture assimilabili al rettangolo; su queste partizioni lo scultore interviene giocando sulle superfici litiche, ora più pulite e uniformi, ora più diseguali e affidate alla spontaneità della materia inorganica.

In questi lavori sembrerebbe indicata una direzione di ricerca verso forme di purezza astratta e di ideale geometrizzazione, ma una lettura più attenta rivela altre e diverse intenzioni espressive. Coerenti e coeve a queste sculture sono infatti le Muraglie, nelle quali le stesse modalità compositive costruiscono opere nelle quali più evidente è il percorso creativo che parte dal riferimento a un ricordo del reale, che qui pare essere la memoria di antichi muri ottenuti con filari sovrapposti di pietre, quali troviamo nelle nostre campagne, soprattutto nei territori che costeggiano il Mediterraneo.

La poetica di Fulvi mostra quindi, con questi lavori, la maturazione di uno dei punti nodali di tutto il suo successivo svolgimento, ovvero la memoria di una realtà remota, nel senso di storicamente lontana ma anche allontanata nel profondo della coscienza, perché già qui, come nelle opere posteriori, assolutamente evidente è l’intervento dell’artista, che trasforma un motivo di ispirazione in creazione originale, frutto di una riflessione individuale.

In questa fase, cioè tra la fine degli anni settanta e il decennio successivo, l’attività plastica viene inoltre affiancata dalla realizzazione di opere di grafica e di manifesti, proposti come ideale sintesi del lavoro dello scultore.

Con gli anni ottanta, la produzione dell’autore si arricchisce di nuovi motivi. Vediamo infatti le Ruote, sculture di forma circolare, le cui facce, piane, presentano segni profondi, a raggio, che si oscurano d’ombra: in esse chiaro è il riferimento ad antichi strumenti del lavoro dell’uomo, appartenenti ad un mondo arcaico e distante dal nostro. Appaiono però anche le Steli, che ben presto si trasformano in Pilastri e in Colonne, opere impostate su un caratteristico andamento verticale, che interesserà l’artista per una larga parte della sua produzione: in esse l’arenaria mostra una lavorazione particolare, che Fulvi praticherà anche in molte prove successive, fino a rese di abilità tecnica quasi virtuosistica, che prevedono superfici uniformi ma mai assolutamente levigate, nelle quali si mostra la naturalità della pietra, piegata e modificata dall’intervento dello scultore. Anche in questi lavori è inoltre possibile intravedere la memoria di architetture del passato, dalle colonne di templi che ancora si innalzano nelle zone dell’antica Magna Grecia, alle pietrefitte, menhir preistorici che ritmano gli orizzonti del nostro Sud.

Ma gli anni ottanta segnano anche un altro importante passaggio nel percorso artistico di Luigi Fulvi, perché è in questa fase che oltre alla ricerca sull’arenaria, l’autore amplia il suo campo d’azione al legno. Legno che non è mai scelto a caso o semplicemente acquisito e trasformato in opera d’arte: ognuna delle sculture eseguite in questo materiale ha infatti alla sua origine una attenta analisi, che fa scattare nell’artista una intuizione espressiva, suggerita dalla natura stessa della materia, che può mostrare segni di combustione, venature diverse, spaccature dovute al tempo o a eventi trascorsi.

Nascono così i Totem, le Porte, gli Idoli, lavori contraddistinti da una accentuata verticalità e nei quali è evidente una policromia dovuta alle accidentalità del legno piegata dall’artista alle necessità espressive: le forme appaiono più libere e ammettono rientranze e aggetti stabiliti da andamenti di ispirazione geometrica, però non rigidi o costringenti. Alcune parti si affidano alla naturalità della materia lignea mentre in altre si mostra più chiaramente l’azione dello scultore, leggibile nella trama rugosa di ininterrotti segni intagliati con la sgorbia.

Il legno permette all’artista di realizzare anche altri lavori, nei quali nuovi motivi poetici si concretizzano in nuove forme: compaiono infatti i Templi, nei quali la struttura compositiva comprende un insieme di diversi elementi verticali, non più studiati per una visione preferibilmente frontale ma invece aperti a una percezione pienamente tridimensionale.

Con il legno, quindi, Fulvi mette ulteriormente a fuoco le proprie scelte artistiche: è ipotizzabile che proprio questo materiale, per la sua natura e per la sua storia, sia stato utile all’autore nella precisazione della propria poetica. Il legno, materia scultorea che pone limitazioni espressive e difficoltà tecniche, è stato comunque la sostanza plastica nella quale vennero realizzate le più antiche testimonianze dell’arte dell’Occidente, dagli xoana, le sculture poste nelle celle dei primi santuari ellenici, alle architetture dei templi della Grecia più arcaica; di questi manufatti non è rimasto nulla o quasi ed è quindi sulla loro memoria, ma anche sulla loro reinvenzione fantastica, che lavora Fulvi.

Con gli anni novanta, lo scultore prosegue la sua ricerca, declinandola nel legno e soprattutto nell’arenaria e arrivando alla riflessione poetica sul tema delle Feritoie, aperture accuratamente definite che perforano la pietra in senso spesso verticale e che rivelano la profondità della sostanza litica.

Le forme possono, in questa fase, assumere rilevanza diversa, allargandosi ed espandendosi nello spazio o abbassandosi e articolandosi in strutture più complesse, in una dimensione percettiva più dichiaratamente tridimensionale, suggerita dall’accostamento e dall’assemblaggio di varie lastre. Il risultato plastico presenta, in tutti i casi,  pause ritmate d’ombra, in un chiaroscuro che esalta il colore della materia scultorea, giocato su toni caldi che variano dalle terre ai rosa: Fulvi approfondisce con queste opere il tema della luce e del suo opposto, raffinando ulteriormente le superfici delle sculture, che risultano coerentemente uniformi ma comunque increspate dalle accidentalità della pietra, dentro la quale possono comparire frammenti litici di cromie diverse e residui di organismi vissuti in un tempo primordiale, incorporati in una materia che diviene una stratigrafia storica ma soprattutto cosmica.

Le opere così realizzate presentano caratteri che echeggiano riferimenti al linguaggio architettonico, evocando la struttura di antiche dimore, di porte socchiuse su spazi di civiltà perdute, di torri che difendono abitati di origini lontane; significativa, in questo senso, la serie ispirata all’Egitto, nella quale può leggersi la memoria di monumentali fabbriche erette da millenni sulla sabbia del deserto assolato, la cui cromia si riflette nella sostanza litica dell’intervento plastico.

La produzione dell’autore comprende inoltre opere che è difficile inserire entro classificazioni tradizionali: per esse, forse la definizione più corretta potrebbe esser quella di collage, derivati e quindi strettamente collegati alla ricerca dell’autore nel campo dell’espressione tridimensionale. In questi particolari lavori, l’artista presenta, opportunamente trasformati nelle dimensioni tecniche e mentali necessarie, le forme e i temi già ampiamente indagati nelle opere plastiche, che una metamorfosi fantastica ha mutato in facciate e in scorci di immaginari monumenti antichi, osservati da punti di vista piuttosto ravvicinati.

Il legame più evidente con l’attività plastica è però inequivocabilmente riconoscibile nel materiale usato, che prevede l’impiego dello scarto derivato dall’azione scultorea, ridotto a granelli di sabbia e a sottile polvere e fissato sulla superficie bidimensionale: questo particolare procedimento permette la realizzazione di immagini giocate su sottili e graduali passaggi di colore, che vivono di una raffinata e attentamente misurata monocromia tonale.

Con il nuovo millennio, Fulvi si dedica alla creazione delle Vele, nelle quali linee curve accompagnano l’alleggerirsi della pietra, scolpita in lastre più sottili rispetto alla produzione precedente; per questi lavori è pensata anche la possibilità del movimento, ottenuto con meccanismi tecnici e poetici che paiono sfidare l’essenza stessa della statuaria, secondo un ossimoro ideale che attraversa la sostanza della plastica contemporanea.

Queste opere completano l’insieme della produzione di Luigi Fulvi, pervasa di ricordi di un tempo e di un mondo lontani, riferibili alle terre d’origine del loro autore, scenario geografico e culturale di antichissime civiltà.  Questa idea viene ripresa anche nella scelta dei materiali: la pietra e il legno, riferibili ai territori nativi dell’artista, sottolineano inoltre una significativa attenzione per l’espressività dei materiali, aiutata e indirizzata da una consumata e sorvegliata abilità tecnica.

Ma la coscienza del passato non si trasforma in citazionismo o in notazione sterilmente nostalgica dell’antico; le scelte formali rivelano infatti motivi di ispirazione consapevolmente tratti dalle tendenze visive del più aggiornato presente. Il linguaggio creato dall’artista evidenzia infatti orizzonti di piena internazionalità ed è capace di trasformare il sentimento individuale in pensiero collettivo, approfondendo, tra l’altro, una delle questioni sostanziali concernente la plastica contemporanea pensata per la dimensione pubblica.

In questa scultura pare quindi di poter leggere, oltre che emozioni personali, anche considerazioni di carattere più generale: l’attualità intrisa di memoria delle opere  di Luigi Fulvi richiama infatti al legame profondo che collega presente e storia, secondo un‘idea che è chiave fondamentale e sempre efficace per la lettura e per l’interpretazione della nostra realtà.

[Testo inserito nel catalogo della mostra ‘Borgese e Fulvi, Mediterraneo: tra arcaicità e mito’ a cura di Alberto Veca presso il Museo della Permanente di Milano a Gennaio 2009.]


Antonio Musiari

Vela,.2012,.pietra.arenaria.di.Gallipoli,.32 x 9 x 65 cm.

Soltanto fortuna? L’oggetto apotropaico dalla formula al talismano.

Totem, amuleti talismani e oltre – 1999

… Si può parlare di oggetti apotropaici quando la figurazione, conforme al principio della simpatia, presenta la prerogativa di orientare, di specificare una certa potenza il cui principio è fondato altrove. Il medesimo principio giustifica la grande varietà di materiali utilizzati per attirare il vantaggioso influsso … Gli attribuiti degli oggetti derivano anche dalla personalità dello stregone che li ha costruiti o incantati. Se virtù ed efficacia di un portafortuna dipendono soprattutto da chi li prepara, l’artista può vantare la facoltà di costruire oggetti del genere e, di conseguenza, ascrivere la propria opera alla funzione apotropaica.

… Luigi Fulvi privilegia l’attenzione alle forme naturali e alla loro potenziale evoluzione in strutture pensate, perseguendo una sintesi dell’interrotto confronto tra volume e disegno proprio della scultura: la scelta del legno e soprattutto della pietra arenaria, in questo caso il “carparo” di Gallipoli, gli ha permesso di sviluppare le valenze espressive tanto dei volumi quanto delle superfici. Su queste, la mano ritrova le tecniche tradizionali – dalla sgrossatura alla gradinatura alle finiture – chiedendo alle asperità e agli imprevisti dei blocchi delle risposte attuali per interrogativi di sempre. I riferimenti culturali del processo creativo vanno dalle “pietrefitte” – i menhir, checostellano la campagna del Salento: erme di perduti culti preistorici e guardiani ancora benevoli di un paesaggio di millenaria interazione tra natura e lavoro dell’uomo – all’informale del secondo dopoguerra. Più che sull’immediata rappresentabilità del soggetto, l’obiettivo si concentra sulla potenza evocativa delle masse litiche. La misura diviene, infine, veicolo del messaggio e del codice simbolico che si dispiegano nell’opera …

… La scultura non mostra quindi traccia di figurazione riconoscibile, ma si affida al gioco tra il volume e il graffio. D’altra parte, la tridimensionalità della massa lapidea esalta la mutevolezza del punto di vista e si traduce in un invito ad avvicinarsi e a meglio scrutare la remota sillaba.

[Testo presente nel catalogo della mostra ‘Soltanto fortuna? L’oggetto apotropaico dalla formula al talismano.’ a cura di Antonio Musiari presso Palazzo Gambara in Verolanuova (Brescia) a settembre 1999.]


Antonio Antonaci

Dimora Mediterranea, 2010, pietra arenaria, 46 x 46 x 40 cm.

Fulvi ovvero la metafisica della pietra – 1992

            Se si potesse usare lo scalpello di Fulvi per “schizzare” un suo profilo, ne uscirebbe fuori la figura di un ricercatore, diuturno e tenace, dell’Eidos (l’Idea di Platone) presente, ancorché impalpabile, entro gli atomi infiniti, di chiaro sapore democriteo, del “carparo” della sua terra salentina. Codesto inseguire la res materica non è, per Fulvi, un hobby tradotto in opera d’arte, essendo impossibile che l’hobby attinga i vertici dell’Arte; è bensì l’ansia, divenuta in certi punti vera e propria “passione”, di instaurare un dialogo tra la materia tangibile, sottoposta alla “categoria” della ponderabilità (il masso di pietra, il tronco d’albero, ecc. e cioè quella che impropriamente chiamerei “materia prima” giacente nella sua bottega) e l’Idea di essa.

… Il passaggio, assai spesso sofferto, da questo blocco materico (sia esso pietra, tufo, “carparo”, o legno od altro “elemento”) particolare all’Idea universale, segna il momento in cui Fulvi “traduce” in Idea, appunto (cioè “Forma”) quel che altrimenti resterebbe “indefinito” (mai definito) nel tunnel dell’Amorfo.

            Perciò a proposito di Fulvi, mi piace parlare di “metafisica” della Pietra. Che ai fini della catalogazione e dell’anagrafe dei suoi “pezzi”, Fulvi dia un titolo, a me, interessa in modo relativo. Quel che invece coinvolge il fruitore delle sue opere è questo “tenere-sotto-presa” la materia, sublimata al livello di Eidos. Questo mio, non è un concetto peregrino o ricercato; è bensì un flash, scattato da un particolare mio angolo visuale, che, superando le dimensioni della geometria euclidea, si fissa su quell’arché husserliana del giudizio estetico che fa dell’opera d’arte il tramite per ulteriori affinamenti della “materia” plasmata fino a tradursi in luminosa realtà “eidetica”.

La metafisica della pietra diventa spesso, in Fulvi, metafisica della luce.

… Questo Artista ha respirato fin dalla culla, insensibilmente ma profondamente, l’aria mediterranea del mondo ellenico ed ellenistico (più noto, quest’ultimo, come Magna Grecia), dove il “carparo” dei templi e quello delle infinite scalee dei teatri è segnato nello stesso registro di nascita di quello di Gallipoli, di Alezio, e di altre contrade del Salento. Anche questo bisogna mettere all’attivo nell’arte di Fulvi.

[Fulvi ovvero la metafisica della pietra – 1992. Testo di presentazione della mostra ‘Mappe della memoria’ presso il centro d’arte G. Martinez di Galatina a novembre 1992.]


Mauro Panzera

Feritoia, 1989, pietra arenaria di Gallipoli, 20 x 20 x 5 cm.

Esprit de finesse – 1989

            Uno scultore che costruisce è Luigi Fulvi. Se l’architettura è la casa che custodisce la statua del dio, Fulvi, da quando gli dei hanno abbandonato la terra, scolpisce strutture perché l’uomo ritrovi un varco, ripartendo dalle origini. Non l’uomo maiuscolo ma i singoli uomini abitatori di luoghi.

L’arenaria è la sua terra, l’arenaria è la sua materia. Fulvi la lavora con una religiosità che contiene – è il lato più oscuro della vicenda – il valore primigenio ma farei meglio a dire il senso della continuità storica terrena dell’uomo. È pensare alle origini.

Mauro Corradini

Le opere recenti di Luigi Fulvi si pongono come continuazione di un discorso di strutture iniziato già da alcuni anni; lo stesso uso della pietra arenaria, fatto di nostalgia e memoria, oltre che di abilità tecniche, riporta ad una concezione archetipica della rappresentazione: colonne, porte, fondali, … Sono gli oggetti, i topos poetici, della originaria interpretazione di Fulvi del concetto di verticalità. E rappresentano non certamente un omaggio e/o recupero della naturalità simbolica, ma della cultura architettonica, cui si collega la scultura, come idea monumentale.

In questo senso le sue immagini sono primarie: i materiali stessi – oltre all’arenaria, Fulvi utilizza il legno – rappresentano elementi primari, di prelievo diretto con la natura, senza intermediazioni rappresentate dalla cera, dalla fusione, dal bronzo, … o da quant’altro.

Il processo strutturale è venuto sfociando – e già lo si notava nelle ‘feritoie’ – in un luogo poetico di chiara espressione monumentale: è l’omaggio all’Egitto, intesa come riscoperta del valore plastico nella struttura architettonica, non copia, ma interpretazione scultorea degli elementi strutturali e fondanti la necessità dell’architettura. Così, il ciclo si compie: Fulvi propone una scultura che ha il fascino nella monumentalità senza essere monumento, rimane oggetto primario, e però linguisticamente intrisa di fermenti moderni, è archetipica senza essere primordiale. La struttura architettonica di Fulvi giunge a rappresentare una componente emotiva, sa leggere gli eventi attraverso il rigore della struttura formale, definisce e determina i rapporti tra le cose.

[Testo inserito nel libro ‘L’alchimia della visione. Saggio critico sul gruppo Esprit de finesse’ a cura di Giorgio Cortenova e Mauro Corradini, presentato presso la Museo Ken Dami di Brescia nel 1990.]

Floriano De Santi

Le due pareti, 1995, pietra arenaria, 60 x 24 x 50 cm.

…Quasi mitologie inconsce – 1987

            A prima vista la ricerca plastica di Luigi Fulvi potrebbe apparire legata a intonazioni e stilemi informali, in cui però la naturalità del medium prevale sulla sua valenza espressiva. In effetti le sculture sono create seguendo il destino del materiale di cui sono composte, sfruttandone i nodi e le anfrattuosità; e per questo acquistano un carattere di organicità o di frammenti di una sconosciuta civiltà consumatasi nel corso dei secoli. …

Ma non siamo di fronte a un repechage di fossili archeologici. Sebbene Fulvi in alcune opere trovi appoggio e incentivo su certi blocchi di calcare erratici per le radure, sui cippi miliari con l’anello per le giumente, sulle macine del grano delle ulive, sui menhir confitti lungo i tratturi di Bitonto o i dolmen come troni di giganti sparsi per la piana di Galatina, sulle cariatidi delle basiliche marine, persino sulle rovine dei castelli svevi corrose dal vento di Gravina e di Lucera, le sue pietre arenarie vanno al di là di una simile dimensione primordiale. Esse appalesano tutt’altro universo: intanto per il gusto materico (e per questo si capisce l’ammirazione di Fulvi per il grande Brancusi); e poi per la tendenza alla forma ampia, alla complessione carica di vita, al muoversi lento dei passaggi tattili, e quindi al senso del peso, delle masse, che sembrano riportarci alla nostra preistoria, al limite di mitologie inconsce.

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