Per cui, forse, ci possiamo ancora salvare da una comunicazione interpersonale depressa in uno scambio di battute insignificanti, in rigagnoli di inutilità, futilità, insensatezze che scorrono nel tempo delle giornate. Ci possiamo ancora salvare dall’ossessione di contare il numero di sconosciuti che chiamiamo amici, il numero dei “mi piace”. Forse dobbiamo semplicemente avere, per qualche tempo ancora, la pazienza di aspettare: la nausea. A quel punto, soltanto a quel punto avremo la forza di spegnere tutto quell’armamentario attraverso il quale importuniamo qualcuno e da qualcuno ci facciamo importunare. A quel punto, soltanto a quel punto tireremo i piedi fuori dal pantano, scrolleremo la testa, usciremo di casa e ce ne andremo a fare una passeggiata solitaria o a parlare con la gente. Vera. Quella che ha un corpo. Una voce. Qualcosa di autentico da dire.
Però, intanto, continuiamo a ritrovarci tutti nella piazza grande- sconfinata- dei social. Per fare cosa? Per fare niente. Perché a parte poche eccezioni che riguardano prevalentemente rapporti di lavoro per i quali queste piattaforme a volte consentono rapidità di tempo e risparmio di andirivieni, tutto il resto si risolve in valanghe di ciarle senza fine e senza senso fra gruppi più o meno vasti di amici che molte volte non sono altro che fantasmi generati e riprodotti dalla virtualità.
La relazione autentica, concreta, sostanziale, di fatto è azzerata. Prevale l’inautenticità, la finzione, la solitudine. Con molta probabilità si viene invasi da un malessere di cui si diventa quasi inconsapevoli in quanto nel giro di poco tempo si trasforma in condizione consueta, perfino naturale. A un certo punto si sta male senza nemmeno averne cognizione. D’altra parte come si può stare bene se ci si infanga in una palude di messaggi ricevuti e mandati, se ci si ritrova in una tensione compulsiva che non lascia spazio e possibilità di pensiero, di riflessione. Come si può stare bene in una situazione di autoreferenzialità, in un confronto con l’altro strutturato in maniera assolutamente superficiale. Non c’è più neppure una differenza fra le generazioni dei padri e dei figli. Ci siamo messi tutti insieme, padri e figli, nell’imbuto. Nativi e immigrati digitali, tutti quanti, indifferentemente, nell’imbuto.
Il pessimista dice che a questo punto di rimedi non se ne possono più trovare. Che dovevamo pensarci prima, avere se non proprio una saggezza almeno un senso della misura. Non l’abbiamo avuto. Qualcuno potrebbe anche sostenere che si tratta di evoluzioni (o involuzioni) dei processi e dei mezzi culturali. Certo è che non sempre quello che viene dopo è progresso, diceva Manzoni nel suo saggio sul romanzo storico. Potremmo anche permetterci di aggiungere: non sempre progresso tecnologico e progresso umano procedono con lo stesso passo. A volte può accadere che il primo mortifichi il secondo. Allora non resta altro che sperare in un assalto di nausea: a un certo punto uno non ce la fa più, gli si impallano gli occhi, si sente la testa vuota oppure ingombra di scaglie di comunicazione che non riesce a mettere insieme, che non sa o non può selezionare, che non sa o non può organizzare in un tessuto organico, coerente, coeso, si sente dentro un peso di cui non sa liberarsi perché è impalpabile, e allora reagisce d’istinto. Poi, dopo l’istinto, le persone ricominceranno a ragionare.
Per cui riprenderanno ad uscire di casa la mattina e a comprare uno, due, tre giornali, che magari leggeranno quando è sera tardi. Riprenderanno a leggere libri. Penseranno. Perché è questo l’importante, l’essenziale. Perché l’importante, l’essenziale, è non rinunciare mai al proprio pensiero e al confronto del proprio con quello degli altri.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 10 settembre 2023]