Racconti sovietici 8. Il sottotenente Kiže 5

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Il barone Arakčeev era un diligente uomo di Stato, veramente preoccupato per le sorti della nazione.

A causa di questo, il suo carattere diveniva poco definibile, era uno imperscrutabile. Di certo non era un uomo vendicativo e persino era indulgente, a volte. Al racconto di qualche storia triste, lagrimava come un bimbo e durante una visita al giardino, metteva spesso nella mano di una ragazzina addetta alla pulizia una mancetta di un copeco. Ma poi, notando che i sentieri del giardino non erano stati affatto spazzati a dovere, ordinava di fustigare la ragazzina con una verga. Alla fine della pena corporale, regalava, comunque, alla povera piccina una moneta da cinque copechi.

In presenza dell’imperatore avvertiva una debolezza, del tutto simile all’affetto.

Era un vero fanatico della pulizia in genere, divenuta un simbolo dell’indole sua e del costume. Tuttavia provava soddisfazione, quando trovava difetti nella pulizia e nell’ordine e, se non riusciva a scovarli, rimaneva in cuor suo dispiaciuto. Invece del brasato o dell’arrosto di carne fresca, mangiava, d’abitudine, la carne salata.

Era la personificazione di una certa sbadataggine; come quella dei filosofi. Davvero, i tedeschi letterati trovavano una forte somiglianza dei suoi occhi con quelli del filosofo Kant, famoso allora in Germania: avevano un colore acquoso, indefinibile, leggermente velati da una trasparente nebbiolina. Il barone, però, si offese, quando qualcuno gli accennò a questa somiglianza.

Non si poteva definirlo neppure come una persona avara, in quanto gli piaceva anche sfoggiare e dare lustro a tutto. Per questo entrava in merito di ogni minuzia della gestione economica. Si dedicava personalmente alla progettazione e ai disegni delle cappelle, delle medaglie, delle icone e perfino degli addobbi e dei servizi per le tavole dei banchetti. Per le sue creazioni prediligeva il fascino dei cerchi, delle ellissi e delle linee che, intrecciandosi, fossero atte a produrre un’illusione ottica. Lui stesso adorava illudere un richiedente od illudere l’imperatore e simulava di non essersi accorto, quando qualcuno trovava il modo di illuderlo. Ingannarlo era in verità assai difficile.

Possedeva gli elenchi dei beni materiali di ogni singola persona del personale: dal servitore capo, al ragazzino-garzone di cucina e controllava attentamente tutti gli inventari dell’ospedale.

Durante la sistemazione dell’ospedale, nel quale lavorava il padre del tenente Sinjuchaev, il barone personalmente aveva indicato dove e come andassero collocati i lettini, le panchine, un tavolo del medico e perfino come deve essere una penna da scrivere, e cioè liscia, priva di una fernetta, così com’è un calamus romano – uno stelo di giunco. Per una penna appuntita con la fernetta, all’infermiere, l’aiuto medico, spettavano cinque frustate di verga.

Il barone Arakčeev era attratto dall’idea di uno Stato, come quello dell’Impero Romano.

Ascoltò distrattamente il dottor Sinjuchaev e soltanto quando costui gli trasmise la supplica scritta, la lesse attentamente e fece un rimprovero al medico, perché il documento non era stato firmato da una mano ferma.

Il medico si scusò con il fatto che al figlio era tremata la mano.

«Ah, ecco, caro, lo vedi» – disse il barone con soddisfazione, – «perfino la mano trema.»

Poi, dando uno sguardo al medico, gli domandò: «E quand’è che è avvenuta la morte?»

«Il giorno quindici di giugno» – rispose il medico sconcertato.

«Quindici giugno» – cantilenò il barone, riflettendo, – «il quindici di giugno… E oggi è già il diciassette» – disse all’improvviso con rimprovero al medico. «E dov’è che è stato il morto per due giorni?»

Sogghignando al viso lungo del medico, diede ancora uno sguardo alla supplica e disse: «Vedi tu stesso, quante incurie vi sono. E adesso ti saluto, mio caro, vai, vai pure.»

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Il cantore e segretario di Stato, Meletskij, agiva a casaccio, rischiava e spesso vinceva, perché presentava ogni faccenda in modo delicato, corrispondente in pieno alle tinte di Cameron, ma le sue vincite si succedevano alle perdite, come nel gioco «Quadrille».

Il barone Arakčeev aveva invece un vezzo del tutto differente. Non rischiava, non avallava mai niente. Al contrario, nelle sue relazioni all’imperatore indicava immancabilmente un eventuale abuso – eccolo – e subito cercava di ottenere una disposizione sulle misure per fronteggiarlo. Lo sminuire il proprio ruolo, che ogni volta rischiò Meletskij, il barone lo effettuava su se stesso personalmente. Così che da lontano, gli baluginava una vincita grossa, come nel gioco «Faro».

Fece un rapporto laconico all’imperatore che il defunto tenente Sinjuchaev era arrivato a Gatčina, dove era stato ricoverato all’ospedale. Con ciò questi aveva dichiarato d’essere vivo e aveva presentato una supplica per il ripristino del suo nome negli elenchi del reggimento. La detta supplica è allegata al presente rapporto, quindi si richiedono, umilmente, ulteriori disposizioni. Col tono di rassegnazione di questo stilato aveva mostrato di comportarsi come un sollecito fattore che per ogni cosa si rivolge al padrone.

Una risposta non si fece attendere; riguardo alla supplica e per il barone Arakčeev in particolare. Alla supplica era stata apposta una disposizione: la richiesta dell’ex tenente Sinjuchaev, cancellato dall’elenco del reggimento in quanto defunto, è respinta per la stessa motivazione. Al barone Arakčeev era stata inviata invece una nota:

Signore barone Arakčeev.

Mi sorprende che, avendo il grado di generale, non conosca il regolamento, inviando a me personalmente la supplica del defunto tenente Sinjuchaev che, tra l’altro, non fu neppure un ufficiale del suo reggimento e, in ogni modo, dapprima doveva essere indirizzata per direttissima alla cancelleria del reggimento d’appartenenza del tenente, senza far gravare direttamente su di me una supplica come questa.

                           Peraltro, permango a lei benevolo,

                                                                                          Pavel.

Non scrisse: «benevolo per sempre». Ed Arakčeev versò una lacrima, perché odiava da morire ricevere dei rimproveri. Andò personalmente all’ospedale e ordinò di scacciare immediatamente il tenente morto, rilasciandogli solo la biancheria, invece trattenere l’uniforme da ufficiale, trascritta nell’inventario.

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Quando il tenente Kižé tornò dalla Siberia, di lui sapevano già in molti. Era quello stesso tenente che aveva gridato «Guardie!» sotto la finestra dell’imperatore, era stato fustigato e deportato in Siberia, ma poi era stato graziato e promosso a tenente. Queste furono le caratteristiche pienamente delineate della sua vita.

Il comandante non avvertiva oramai l’imbarazzo della sua presenza e, ovviamente, lo nominava or in un pattugliamento, or al servizio di turno. Quando il reggimento si metteva in marcia per raggiungere degli accampamenti delle grandi manovre, il tenente si metteva in marcia insieme al reggimento. Si trattava di un ufficiale assai diligente, in quanto nessuna mancanza gli si poteva attribuire.

La dama d’onore, il breve svenimento della quale lo salvò, in un primo momento gioì, credendo che la stessero unendo in matrimonio con il suo amante casuale. S’incollò su una gota un neo finto e strinse alla meglio i lacci unibili a fatica del bustino dell’abito. Più tardi, in chiesa, dovette accorgersi di stare sola soletta sul posto riservato alla sposa e, in vicinanza, al di sopra del posto vacante dello sposo, l’aiutante stava tenendo sollevata la tiara nuziale. Era già intenzionata a svenire nuovamente, ma dato che teneva gli occhi abbassati e scorgeva molto bene dalla sua vita in giù, dovette subito ripensarci. Un certo mistero della cerimonia, in cui lo sposo era assente, piacque a molti.

Dopo qualche tempo al tenente Kižé nacque un figlio, secondo le voci, identico al padre.

L’imperatore lo scordò. Ebbe tante altre faccende per la testa.

La vispa Nelidova fu piantata in tronco, sostituita dalla paffuta Gagarina. Le tinte tenui di Cameron, le casette svizzere e perfino la reggia Pavlovskoe furono dimenticate. In un preciso ordine di mattoni rossi, si distese, quasi premuta al suolo, la città soldatesca di San Pietroburgo. Il generale Suvorov, che l’imperatore non vedeva di buon occhio, ma sopportava, perché costui, a sua volta, era stato sempre ai ferri corti col defunto Potemkin, fu richiamato dalla solitudine e dalla quiete del suo villaggio sperduto. Si approssimava una campagna di guerra e l’imperatore aveva dei piani strategici. In testa gli frullavano tanti piani e progetti, cosicché non di rado l’uno correva troppo in avanti dell’altro.

Pavel Petrovič a questo punto s’ingrassò, divenne tarchiato, squadrato. Il suo viso acquisì un color di mattone. Il generale Suvorov di nuovo cadde in disgrazia. Sempre meno si sentì una risata dell’imperatore.

Rovistando tra gli elenchi dei reggimenti, lo sguardo posò una volta sul nome del tenente Kižé, e lo aveva promosso a capitano, e un’altra volta a colonnello. Il tenente era un buon ufficiale. Poi l’imperatore se lo dimenticò di nuovo.

La vita del colonnello Kižé si svolgeva nell’ombra, con la rassegnazione di tutti. A casa aveva un suo studio, nella caserma un suo locale privato e, di tanto in tanto, gli venivano portati dei rapporti e delle ordinanze, non stupendosi troppo per l’assenza del colonnello.

Oramai comandava un reggimento.

Nel migliore dei modi si sentiva la dama d’onore dentro un enorme letto a due piazze. Lo sposo avanzava nella scala gerarchica, si dormiva molto comodamente, il figliolo stava crescendo. Qualche volta la parte del talamo nuziale del colonnello veniva scaldata da un tenente, un capitano o da un civile. Così, peraltro, succedeva nei tanti letti matrimoniali dei colonnelli di San Pietroburgo, i padroni dei quali erano in marcia.

Una volta, mentre un amante esausto stava dormendo, la dama d’onore sentì uno scricchiolio nella stanza adiacente. Lo scricchiolio si ripeté. Indubbiamente si trattava di un assestamento del pavimento di legno. Tuttavia lei in un attimo, scuotendolo, svegliò l’amante, lo scacciò a spintoni via e buttò fuori della porta i suoi abiti. Ravvedendosi, si mise a ridere di se stessa.

Ma anche questo accadeva in molte case dei colonnelli.

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I popolani maschi avevano l’odore del vento, del fumo adoravano le popolane.

Il tenente Sinjuchaev non guardava nessuno direttamente in faccia e distingueva le persone a naso.

Sempre a naso, a fiuto, si sceglieva un luogo per trascorrere la notte, preferendo, in ogni modo, dormire sotto un albero, in quanto sotto l’albero la pioggia bagna meno.

Seguitava a camminare, non trattenendosi da nessuna parte.

Attraversava i villaggi degli abitanti dei dintorni di San Pietroburgo (estoni, finlandesi) così, come passa un ciottolo piatto, lanciato dai ragazzini nelle acque del fiume, quasi non sfiorandolo. Succedeva che una contadina gli offriva un po’ di latte. Lui lo beveva, restando in piedi, e proseguiva oltre. I bambini che lo circondavano, si placavano nel fissarlo, luccicando con il moccio biancastro. Il villaggio si richiudeva alle spalle.

La sua andatura cambiò poco. Per il tanto camminare, divenne semmai un po’ a ciondoloni, ma quest’andatura un po’ fiacca, svitata e perfino un’andatura giocattolo, rimase tuttavia da ufficiale, rimase un’andatura militare.

Non si soffermava molto sulle direzioni dei suoi spostamenti. Tuttavia queste direzioni potevano essere definite. Deviando, facendo degli zig-zag, simili alle saette dei disegni sul diluvio universale, girava in tondo e questi cerchi lentamente si restringevano.

Così passò un anno, finché il cerchio si chiuse su un punto e lui fece l’ingresso a San Pietroburgo. Una volta entrato, la girò tutta in un cerchio dall’inizio alla fine.

Poi iniziò a girovagare al suo interno e gli capitò di fare lo stesso giro per delle settimane intere.

Camminava velocemente, con un’invariabile sua andatura da militare un po’ svitata, mentre le sue braccia e le gambe sembravano d’essere attaccate per uno scherzo ai fili, come quelle di un burattino.

I bottegai lo odiavano.

Se gli capitava di passare lungo una sfilza dei negozi «Gostinyj rjad», loro gli urlavano dietro: «Vieni pure ieri.»

«Vai, vai. Cammina all’aria fresca.»

Si diceva di lui che portava sfortuna e le popolane-panificatrici, per esorcizzare il suo eventuale malocchio, gli davano, con tacito accordo, una pagnotta a testa.

I ragazzini di strada, che ad ogni epoca percepiscono benissimo i tratti deboli, lo rincorrevano e gridavano: «Prendetelo, prendetelo!»

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A San Pietroburgo, in prossimità del castello di Pavel Petrovič, le guardie gridarono: «L’imperatore dorme.»

Raccolsero e ripeterono il grido le sentinelle con alabarda ad ogni incrocio: «L’imperatore dorme.»

Questo grido fece sì che, una dietro all’altra, come spinte da un’improvvisa ventata, si chiusero le botteghe e i passanti si nascosero dentro le case.

Era un segnale che era arrivata la sera.

Sulla piazza di Sant’Isacco le folle dei contadini straccioni, radunate per il lavoro da tanti villaggi, spensero i fuochi dei falò e si sdraiarono com’erano per terra, coprendosi di cenci.

Le sentinelle con alabarde, dopo aver gridato: «L’imperatore dorme», presero sonno anch’esse. Sulla fortezza di Pietro e Paolo marciava, come un orologio, una guardia. In una bettola di periferia stava seduto un giovanotto, un tipico morto di fame con una corda di tiglio alla cinta invece di una cintura, e beveva la vodka in compagnia di un vetturino.

«Il nostro babbo camuso è ormai spacciato» – disse il vetturino, – «mi è capitato di portare dei signori molto importanti…»

Il ponte levatoio del castello era alzato e Pavel Petrovič stava guardando dalla finestra.

Per adesso si sentiva protetto, sull’isola sua.

Ma c’erano sussurri e sguardi al palazzo che comprendeva fin troppo bene e la gente incontrata per la strada cadeva in ginocchio davanti al suo cavallo con un’espressione strana. Certo, era così che dovevano fare, secondo la sua precisa disposizione, ma adesso le persone cadevano con la faccia nel fango, in un modo diverso, non come prima. Cascavano con un’impetuosità esagerata. E’ certo, montava un cavallo troppo alto, in un altalenarsi delle selle. Il suo regno era troppo fugace. Il castello lacunosamente protetto ed ampio. Avrebbe voluto scegliere per suo uso una stanza più piccola. Pavel Petrovič, però, non lo poteva fare; qualcuno lo avrebbe notato subito. «Mi dovrei nascondere in una tabacchiera» – pensò l’imperatore, annusando il tabacco. Non si accese una candela. Si deve evitare di tirarsi addosso dei segugi. Restava fermo nel buio con indosso soltanto la biancheria. Vicino alla finestra faceva una conta di persone. Creava nuovo ordine: cancellava totalmente dalla memoria il conte Bennigsen e lo sostituiva con Olsuf’ev.

I conti delle liste tuttavia non quadravano.

«Comunque la metti, a rimettere sono sempre io…»

«Arakčeev è uno stupido» – sentenziò sommessamente.

«…vaque incertitudine_, con cui s’insinua nelle grazie…»

Una guardia nei pressi di ponte levatoio si scorgeva appena.

«Occorre» – disse Pavel Petrovič come al suo solito, per abitudine, continuando tamburellare con le dita sulla tabacchiera.

«Occorre, occorre…» – Si sforzava di farsi venire in mente e tamburellava, poi smise tutto d’un tratto.

Tutto quello che occorreva fare, era oramai fatto da molto tempo, ma era stato insufficiente.

«Bisognerebbe, forse, rinchiudere da qualche parte Aleksandr Pavlovič, il mio figlio maggiore» – sollecitò una risposta, ma lasciò correre.

«Occorre quindi…»

Cos’è che occorre?

Si mise sul letto e precipitosamente, come agiva da sempre, guizzò sotto la coperta.

Cadde subito in un sonno profondo.

Alle sette di mattina, di un colpo si svegliò e si rese all’improvviso conto d’aver trovato quel che cercava: occorreva avvicinare un uomo semplice e modesto che fosse dedito e devoto interamente e destituire invece tutti gli altri.

 E si addormentò di nuovo.

20

Più tardi, nella stessa mattinata, Pavel Petrovič si dedicò alla verifica delle ordinanze. Il colonnello Kižé ricevette un’improvvisa promozione a generale. Lui era un colonnello che non cercava di accattare i poderi, non si arrampicava per la scala gerarchica, grazie ad una spinta di qualche zio influente, non si era distinto né come un millantatore, né come un arrivista… Il suo servizio svolgeva bene, con discrezione; niente mormorio, niente clamore.

Pavel Petrovič richiese la sua scheda matricolare di servizio.

Si trattenne con interesse su un documento, dal quale risultava, che il colonnello, quando aveva ancora il grado di sottotenente, era stato deportato in Siberia per un urlo sotto le finestre dell’imperatore: «Guardie!». Un vago ricordo fece sorridere l’imperatore. Si era trattato, pare, di una buffa storiella galante.

Oh, come sarebbe opportuno adesso un uomo che a tempo debito urlasse «Guardie!» sotto la finestra. Donò al generale Kižé una bella tenuta e mille servi della gleba.

La sera dello stesso giorno il nome del generale Kižé emerse dall’oblio. Di lui si misero a parlare tutti.

Un tale aveva sentito come l’imperatore, rivolgendosi al conte Palen, con un sorriso che non gli vedevano oramai da tanto tempo, disse: «Per ora non gravarlo con il comando di una divisione. A lui spettano mansioni di primaria importanza!»

Nessuno, tranne il conte Bennigsen, volle ammettere di non sapere nulla del generale. Il conte Palen strizzava gli occhi.

L’Ober-Kammerherr, Aleksandr L’vovič Naryškin, si ricordò del generale: «Sì, sì, il colonnello Kižé… E come no, lo ricordo bene. E’ lui che ebbe una tresca amorosa con Sandunova…»

«Alle manovre vicino al villaggio “Krasnyj”…»

«Mi viene adesso in mente che è un parente di Olsuf’ev, Fëdor Jakovlevič…»

«Lui non è affatto un parente di Olsuf’ev, caro conte. Il colonnello Kižé è un francese. Il suo genitore fu decapitato dalla plebaglia a Tolone.»

21

Gli eventi precipitavano. Il generale Kižé fu convocato al cospetto dell’imperatore. Nello stesso giorno all’imperatore fu riferito che il generale si era ammalato gravemente.

Di conseguenza l’imperatore grugnì con stizza e strappò un bottone dall’abito del conte Palen che gli aveva comunicato la notizia.

Poi raucamente ordinò: «Ricoverare all’ospedale militare, guarire. E se non ci riescono, allora, signore mio, …»

Il Kammer-lacché imperiale andava due volte al giorno all’ospedale per informarsi sulle condizioni del malato.

In una grande corsia, dietro le porte ben chiuse, si affaccendavano dei medici, tremando, come degli ammalati.

Verso la sera del terzo giorno il generale Kižé è deceduto.

Pavel Petrovič oramai non s’incolleriva più. Diede soltanto uno sguardo annebbiato a tutti e si ritirò nelle sue stanze.

22

Il funerale del generale Kižé rimase per tanto tempo un evento indimenticabile a San Pietroburgo e alcuni memorialisti dell’epoca consegnarono alla storia, intatti i particolari.

Il reggimento al completo procedeva con le bandiere a lutto. Trenta carrozze di corte, piene di gente e vuote, oscillavano dietro, muovendosi in una lunga processione. Il tutto era secondo un desiderio preciso dell’imperatore. Sui cuscini di velluto erano portate le decorazioni.

A pochi passi da una pesante bara nera camminava la consorte del defunto, tenendo per mano un bambino.

E piangeva, piangeva…

Nel momento in cui il corteo funebre si riversò nella via adiacente al castello di Pavel Petrovič; egli in persona, da vero amico, apparve lentamente a cavallo sopra il ponte-levatoio, alzando in un estremo saluto la sua spada sguainata.

«Mi muore la gente migliore…»

Non appena passarono le carrozze di corte, guardandole dietro, pronunciò in latino: «Sic transit gloria mundi.»

23

Così fu seppellito il generale Kižé, a compimento di ogni bene della vita terrena vissuta pienamente, perché ebbe tutto dalla vita: una giovinezza e un’avventura galante, una punizione e una deportazione, gli anni di servizio militare, una famiglia, la benevolenza inaspettata dell’imperatore e l’invidia dei cortigiani.

Il suo nome si trova in «Necropoli di San Pietroburgo» e alcuni storici lo menzionarono per inciso.

Il «Necropoli di San Pietroburgo» non riporta il nome del tenente Sinjuchaev.

 Costui sparì non lasciando traccia, si sgretolò in polvere, come se mai fosse esistito.

Pavel Petrovič è invece deceduto nel mese di marzo dello stesso anno, in cui morì il generale Kižé, secondo le notizie ufficiali, d’apoplessia.

(fine)

1928

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

NSdT:  L’imperatore, Pavel I, morì ammazzato, l’11 Marzo del 1801, per mano di alcuni ufficiali della guardia imperiale del reggimento «Preobraženskij», penetrati di notte nella camera da letto del monarca. Gli infersero un colpo di tabacchiera alla tempia, e, tutto sanguinante, lo strangolarono con una sciarpa da ufficiale reggimentale. Alla congiura presero parte alte cariche dello Stato. Lo stesso figlio maggiore della vittima, che era a conoscenza della congiura, non mosse un dito per salvare il padre. Il 12 Marzo del 1801, il giorno dopo l’assassinio, fece un annuncio ufficiale alla popolazione che Sua Maestà, Pavel I, suo padre, era morto durante la notte, colto da un colpo apoplettico e, come erede legittimo del trono, si proclamò imperatore di tutte le Russie con il nome di Aleksandr I.

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