Mare. Emozioni di Laura D’Arpe

di Emilio Filieri

Il nuovo libro della poetessa salentina Laura D’Arpe ha per titolo Mare. Emozioni; già docente di letteratura italiana e latina nei Licei, la D’Arpe è alla sua quindicesima pubblicazione e fra le precedenti vale citare almeno La quinta stagione (Firenze Libri 1989), Le tre vite (Congedo, Galatina 1993), Senza Tempo (Milella, Lecce 1995), Ametrica Carmina (Congedo, Galatina 1998), Sìrima (Congedo, Galatina 2001), Iris. Ametrica carmina II (Lupo, Copertino 2014). L’incontro con la poesia sembra favorito dal tema scelto per questa silloge, Mare, a richiamare l’identità di una penisola fra Adriatico e Ionio, ponte verso l’Oriente e approdo degli eroi. E il Mare della D’Arpe rievoca il Mediterraneo fra mito e storia, fra mistero e bellezza, a tessere un filo rosso sulla schiuma dei flutti, per risalire al tempo degli eroi, dalla nascita delle civiltà sino alle manifestazioni più recenti, percorse da tremiti e suggestioni nel nuovo millennio. Dinanzi al messaggio marino, in ossimorica immagine «luminoso e cupo» (Incantamento, p. 17), la D’Arpe si offre alla contemplazione, per farsi lambire «dalla ritrosa onda» e per concedersi a una dimensione universale: «Il tuo mistero è la mia pace / e gioia la bellezza tua//». Nel correlativo l’onda ritrosa sembra rispecchiare i sentimenti autoriali, fra timidezza e reattività, fra riluttanza e azione, in un canto che lascia intravedere la meta. Con Intuizione (p. 19) la liricità non è immemore di suggestioni leopardiane e montaliane: «Io che travalicare non so / neppure con la vista / l’illimite orizzonte, / glauco tremor mi vince /e sento che l’immenso / per un istante solo / o sempre mi appartiene. // Se l’illusione non è / indefranabile traccia / resiste e mi rimane / che definire non so, …//». Se la figura di Glauco, pescatore trasformato in divinità, è già nelle Metamorfosi di Ovidio, nel c. I del Paradiso dantesco, poi nell’Adone mariniano, nella D’Arpe il mito è distillato in profonda sinestesia (glauco tremor), per la metamorfosi dell’essere umano divenuto dio, declinata però in sensibilità femminile. Si annoverano nei componimenti anafore, inarcature, assonanze e consonanze, capaci di infrangere il vincolo della rima senza perdere ritmo e musicalità; ma nel suo crogiuolo la D’Arpe ha una mano personale, che tintinna fresca su corde toccate in profondità. È pure il caso di Giochi di luce (p. 20), in cui l’accostamento alla Merini appare ravvicinato (perché nacqui d’estate); ma la D’Arpe si confida, a rendere solido il fluido più usuale (L’acqua mi regge), per cui l’acqua giunge a rappresentare il fondamento rassicurante, l’archè costitutiva. La poetessa si rende elemento naturale, a guardare «il cielo, come sia, / o nubilo o sereno / così alto lassù//», pronta a cogliere il senso di una verticalità non taciuta.

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