La commedia all’italiana, con i suoi nomi illustri (Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, Enrico e Carlo Vanzina) e con i suoi film amatissimi, rappresenta, interpreta e aiuta a capire la storia e il costume dell’Italia nel secondo Novecento. Ne rispecchia anche la lingua, nelle sue varietà e nelle sue sfaccettature. Il cinema ha costituito una delle forme comunicative ed estetiche più rilevanti del Novecento, intrattenendo rapporti di reciproca influenza con altri ambiti espressivi (televisione, canzone, pubblicità, «visual art»); nei film inoltre sono frequenti i riferimenti a forme linguisticamente più selettive come poesia e narrativa. Il parlato filmico, nei primi (e remoti) avvii, appare spesso di livello ricercato, quasi discosto rispetto alla lingua della vita “reale”, più semplice e più legata alla dimensione quotidiana. Non sempre il primo cinema è riuscito a realizzare una forma di comunicazione funzionale, credibile e piacevole, comprensibile a un pubblico vasto, culturalmente e linguisticamente eterogeneo. Obiettivo tutt’altro che facile, data la storia linguistica dell’italiano, caratterizzata dalla robusta persistenza dialettale e dal tardivo conseguimento di un parlato medio nazionale. Solo nel secondo dopoguerra siamo diventati, per la prima volta nella nostra storia, un paese linguisticamente unito: l’unità linguistica è venuta dopo l’unità politica, peraltro assai più tardiva rispetto a paesi vicini o omologhi come la Francia, la Spagna, l’Inghilterra.
L’italiano è diventato lingua nazionale grazie allo sviluppo dell’insegnamento scolastico e delle relazioni sociali, grazie ai mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione), grazie alle migrazioni di Rocco e dei suoi fratelli (inurbati tra mille difficolta) e di milioni di uomini e donne emigrati dal Sud, diretti verso le fabbriche del Nord, con le valigie di cartone e parlando dialetto. Passo dopo passo, l’italiano diventava così patrimonio generale e, nello stesso tempo, permanevano vigorose le parlate regionali e i dialetti non morivano. Quasi per rispecchiamento naturale, il cinema degli ultimi decenni del Novecento si accostava a quello che accadeva anche linguisticamente nell’Italia del tempo, si affermava una tendenza sempre più marcata a ridurre le distanze tra lo schermo e la realtà, i film documentavano il plurilinguismo e la varietà di registri che segnavano la realtà linguistica coeva, davano spazio agli italiani regionali, ai dialetti e ai forestierismi, accoglievano con naturalezza particolarità pragmatiche e linguistiche come la scortesia e il turpiloquio. La tendenza alla varietà, evidente nei film per ampie platee, si manifestava meno nella cinematografia d’autore o nei film trasposti da opere letterarie, che pure coesistevano con quelli a soggetto originale.
Esemplarmente, un film fotografa questi temi. «Eccezzziunale…veramente», 1982, con la regia di Carlo Vanzina, soggetto e sceneggiatura di Enrico Vanzina, Carlo Vanzina, Diego Abatantuono, è centrato sulle vicende di tre diversi personaggi (interpretati tutti da Diego Abatantuono), irriducibili tifosi di calcio: il milanista Donato, l’interista Franco e lo juventino Tirzan. Donato, meridionale emigrato a Milano, si è a suo modo integrato nella nuova realtà cittadina. La sua stanza trabocca di gigantografie di calciatori del Milan, lui dorme indossando un pigiama a bande rosse e nere (i colori della sua squadra), è capotifoso, si è guadagnato il soprannome di «ras della fossa». Si esprime in un italiano regionale meridionale foneticamente ipercaratterizzato e spesso ipercorretto, nel tentativo di adeguarsi alla realtà linguistica della città in cui ora vive: la sua lingua è farcita di dittonghi impropri, vocali finali affievolite o scorrettamente ripristinate, duplicazioni e assimilazioni consonantiche («la gente mi ritiene un animalo», «cevvello eccezziunalo, veramente eccezziunalo», «so’ istesso di un maialo», garantiscono alcuni passaggi della canzone che lui canta); parla invece in “perfetto” dialetto barese (o pressapoco) il padre, che non ha ambizioni di finta integrazione settentrionale: «Disgraziate. I’ fatiche come ’n animale tutte la semana e la dumenica vogghie durmì. Sì capite o no?» (dovremmo leggere con l’indistinta tutte le -e finali di parola).
Il lessico di Donato trabocca di paronomasie involontarie e di malapropismi, sostituisce parole con altre aventi un suono simile ma di significato completamente diverso, il cui uso produce effetti comici: «sarò breve e circonciso», «mangia con avidigia», «sul mio moto fuggone mi sento un leone». L’archetipo cinematografico del genere è Totò (e, retrocedendo, Eduardo e un certo suo teatro). Una gag di «Totò a colori» (di Steno, 1952, selezionato tra i cento film italiani da salvare) è tutta giocata sulla deformazione del cognome Trombetta in Trombone. In un dialogo c’è lo scambio: «Prima facevo l’ostetrico, ho cambiato lavoro» e «Ha fatto bene, con le ostriche si guadagna poco». Donato sfoggia citazioni banali o improprie che aspirano a nobilitare il suo eloquio: «Undicesimo comandamento della Bibbia»; «Mia moglie è una strega» (rifacendo il verso a un film con il medesimo titolo del 1980) e aggiungendo «e mia suocera è una stronza». Lo stesso fa l’omologo Tirzan, juventino, che qualifica il suo idolo calcistico Virdis, nato in Sardegna, dell’epiteto di «Tamburine sardo», con la vocale finale del sostantivo affievolita (si intitola «Il Tamburino sardo» un racconto mensile del «Cuore» di De Amicis, in cui un eroico ragazzo sardo, arruolato nell’esercito piemontese, per portare a termine una missione che gli è stata affidata paga il prezzo altissimo dell’amputazione di una gamba, ferita e sforzata fino alle estreme conseguenze). «I pali della porta avversaria vibreranno al nono grado della Scala Mercalli», conclude soddisfatto Tirzan. In questa lingua non mancano gli inserti in inglese (naturalmente stravolto), il nostro Donato aspira a una caratura internazionale e pretende di conoscere le lingue, cantando così: «I just love now tohivoschenenau / Beloved too big for youuuu». «Sciot» per «Shut up» ‘stai zitto’ (in inglese) e «Raus» ‘fuori’ (in tedesco) urla a un malcapitato che vorrebbe rifiutarsi di portare con sé allo stadio uova marce e puzzolenti da lanciare in campo.
La commedia all’italiana raccoglie e asseconda quel che accade nella realtà linguistica (e extralinguistica), come ha suggerito Tullio De Mauro. E così facendo lo proietta ad una platea estesa, esaltando il ruolo che il cinema svolge all’interno dei fenomeni di ristrutturazione linguistica in atto nella società italiana.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 3 settembre 2023]