Racconti sovietici 8. Il sottotenente Kiže 4

Ai tempi della vecchia nonna Elisabetta, le vesti delle dame di corte facevano rumore coi tessuti di broccato, scricchiolavano addosso le sete, i capezzoli liberati timorosamente apparivano dagli abiti. Così era la moda.

Le amazzoni, cui piaceva vestirsi da uomini, le code marine di velluto e le stelle vicino ai capezzoli, sono decadute insieme all’usurpatrice del trono.

Adesso le femmine erano diventate pastorelle con delle belle testoline ricciolute.

Dunque, una di loro stramazzò in uno svenimento breve.

Sollevata dal pavimento personalmente dalla sua benefattrice, ed una volta tornata in sensi, la dama d’onore raccontò: aveva, sì, a quell’ora un appuntamento galante con un ufficiale. Non aveva potuto, però, assentarsi dal piano di sopra nell’ora prestabilita e, all’improvviso, sbirciando giù dalla finestra, aveva visto che l’ufficiale infervorato, lasciando da parte ogni prudenza, ma probabilmente neppure sapendo che stava sotto una finestra dell’imperatore, le stava inviando da sotto in su dei segni.

Lei gli fece un cenno con la mano, strabuzzò gli occhi, manifestando orrore e spavento, ma l’amante comprese il gesto come un suo rifiuto, una ripulsione, e per questo, preso dalla disperazione, lamentosamente gridò «Guardie!», come per dire, aiutatemi, se no, muoio subito.

In quell’esatto momento, non perdendosi d’animo, lei si schiacciò in su il naso con un dito e gli indicò giù. Dopo quel segno di un naso rincagnato, l’ufficiale capì, allibì dal terrore e fuggì.

Non lo vide mai più e, dato che la loro storia d’amore era casuale ed era successa un giorno prima soltanto del fatto, così non seppe neppure il suo nome.

Adesso lo avevano individuato e deportato in Siberia.

Nelidova si mise a riflettere.

Il suo caso fortuito oramai svaniva e, anche se non lo voleva ammettere neanche a se stessa, la sua scarpetta non avrebbe potuto mai più volare contro l’imperatore.

Con l’aiutante dell’imperatore aveva dei rapporti assai freddi e non avrebbe desiderato rivolgersi per nessun motivo proprio a lui. La disponibilità odierna dell’imperatore divenne anche alquanto incerta ed imprevedibile. In questi casi si rivolgeva ad un uomo, sia pure civile, ma potentissimo, nella persona di Jurij Aleksandrovič Niledinskij-Meletskij.

Fece proprio così, mandò da costui un suo servitore privato con un bigliettino.

Il robusto, molto prestante servitore, consegnando ormai abbastanza spesso questi messaggi, ogni volta si meravigliava per la dappocaggine dell’uomo tanto potente. Meletskij era un cantore e un segretario di Stato. Un esaltatore dei canti popolari ed un uomo lussurioso verso le pastorelle. D’aspetto era assai piccolo, aveva la bocca voluttuosa e le sopracciglia cespugliose. Era, inoltre, un gran furbacchione e, guardando in su il servitore largo di spalle, disse: «Riferisci che non debbono preoccuparsi. Che aspettino. Tutto si risolve.»

Ma personalmente un po’ temeva, non sapendo per niente come risolvere, perciò, quando alla sua porta mise il naso una delle sue pastorelle in erba, che prima era chiamata con un nome popolano Avdotja e adesso Selimena, aggrottò severamente le sopracciglia.

La servitù di Jurij Aleksandrovič era composta per la maggior parte da giovanissime pastorelle.

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Le guardie della scorta camminavano e camminavano.

Da una sbarra di passaggio a livello ad un’altra sbarra, da un posto di controllo ad una fortezza; camminavano sempre dritto, gettando occhiate diffidenti ad un vuoto importante che marciava fra loro.

Non era la prima volta che capitava di scortare un confinato in Siberia, ma mai avevano condotto un malfattore come questo. Nel tempo in cui lasciarono i confini della città, ebbero perfino alcune perplessità. Non sentivano né il tintinnio delle catene, né dovettero affrettare il passo del prigioniero a calci di fucile. Poi pensarono che l’intera faccenda non li riguardava, che si trattava di un caso formale e che, dopo tutto, avevano in tasca un mandato ufficiale. Comunicavano poco tra loro, in quanto era proibito.

Ad un posto-stazione della prima tappa dell’itinerario per la Siberia, il guardiano capo della stazione li aveva guardati come a dei pazzi, facendoli confondere. Ma il capo del servizio di scorta fece vedere un documento, in cui si affermava che il detenuto scortato non era un detenuto comune, ma segreto, privo del corpo; e il capo stazione, tutto agitato, si diede tanto da fare, riservando loro per il pernottamento addirittura una cella speciale da tre tavolacci. Cercava d’evitare di parlare loro ed era talmente servile, che le sentinelle della scorta, senza volerlo, si attribuirono un’autentica autorevolezza.

In un posto-stazione grande, dove li portò la seconda tappa, entrarono oramai armati di sicurezza e, con aria di un’importanza personale, il capo del servizio di scorta gettò semplicemente il mandato sulla scrivania del comandante, che ugualmente si agitò e si diede da fare, esattamente come quello di prima.

A poco a poco, andando avanti, cominciarono a comprendere che stavano scortando un reo assai importante. Si abituarono e, nel parlare, gli davano un significativo: «egli» o «costui».

Con quel passo penetrarono nella profondità dell’Impero russo, calpestando la consueta dritta e tanto battuta strada della città di Vladimir.

Lo spazio vacuo che pazientemente marciava tra loro, cambiava; diveniva a volte il vento, a volte la polvere e a volte una stanca, sfinente calura di un’estate tardiva.

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Nel frattempo, seguendo la stessa strada di Vladimir, li stava rincorrendo da un posto di blocco ad un altro, da una fortezza ad un’altra, un’importante disposizione.

Jurij Aleksandrovič Niledinskij-Meletskij mandò dire a Nelidova: «Attendere» e in questo non si sbagliò.

L’immensa paura di Pavel Petrovič lentamente e inesorabilmente, si tramutava di solito in compassione verso se stesso ed in intenerimento.

L’imperatore voltava le spalle alle sembianze animalesche dei cespugli del giardino e delle statue di Brenna e, dopo aver vagato per un bel po’ nel vuoto, si rivolgeva verso la graziosa sensibilità di Cameron.

Fece polpette di tutti i governatori e generali in servizio ai tempi di sua madre, li confinò alle proprie tenute, al di fuori delle quali non misero più il naso. Furono dei passi necessari del suo modo di regnare. Ma il risultato qual è? Tutt’attorno si era formato un gran vuoto.

Dispose, quindi, di appendere una cassetta per le lettere davanti al suo castello per ricevere personalmente lamentele e richieste, in quanto era lui e nessun altro il vero padre dell’intera nazione. Dapprima la cassetta rimase a lungo vuota, e questo lo amareggiava, perché la patria avrebbe dovuto comunicare con l’unico padre che aveva. Poi nella cassetta fu rinvenuta una lettera anonima, in cui lo nominavano anziché babbo, un babbeo camuso e lo minacciavano.

Si guardò allora nello specchio.

«Sono rincagnato, sissignori, camuso eccome» – rantolò, ed ordinò di togliere la cassetta.

 Intraprese un lungo viaggio, per visitare le vastità di questa strana patria. Fece finire in Siberia un governatore, che, nella sua regione, ebbe l’audacia di costruire dei ponti nuovi soltanto in occasione del passaggio dell’imperatore. Il suo viaggio non doveva essere come quello della sua mammina: tutto doveva rimanere così com’era, non agghindato. Tuttavia, la patria taceva. Sul fiume Volga ci fu un caso in cui si radunarono attorno dei contadini. Allora mandò un giovanotto a prelevare un po’ d’acqua dal centro del fiume, per berla pulita.

La bevve e a questi uomini, raucamente, disse: «Ecco, Io sto bevendo la vostra acqua. Che c’è da sgranare gli occhi?»

E attorno si spopolò.

Non fece mai più alcun viaggio e, invece di una cassetta per le lettere, mise ad ogni avamposto delle robuste guardie, ma non sapeva se erano fedeli e non sapeva di chi temere.

Vedeva ovunque la vacuità e il tradimento.

Trovò un rimedio segreto per liberarsene. Rese operative precisione, fedeltà, puntualità e una subordinazione assoluta. Si misero in funzione le cancellerie. Era considerato, che per sé aveva riservato soltanto il potere esecutivo. A dispetto di questo, per una qualche strana coincidenza, accadeva che il potere esecutivo imbrogliava e confondeva le cancellerie e, a conti fatti, c’erano un tradimento sospetto, una vacuità e una subordinazione maliziosa. Gli sembrava di essere un nuotatore accidentale con le mani vuote alzate al cielo tra le onde furiose; un tempo lo aveva visto su un disegno ad incisione.

Intanto, dopo anni e anni, lui era l’unico legittimo monarca.

 E lo gravava il desiderio di avvalersi del padre, almeno di quello defunto. Fece riesumare dalla tomba il morto ammazzato con una forchetta, quel deficiente tedesco che fu considerato suo padre e fece sistemare la bara con le sue spoglie vicino a quella dell’usurpatrice del trono. Ma lo fece spinto, tutt’al più, da una vendetta verso la madre defunta, durante la vita della quale aveva vissuto ogni minuto come un condannato a morte.

E poi, era o no sua madre?

Seppe qualcosa di torbido sullo scandalo della sua nascita.

Era un uomo apolide; privo perfino di un padre defunto, persino di una defunta madre.

Mai, tuttavia, accentuò il benché minimo pensiero su tutto questo, sino a tal punto, che avrebbe ordinato di sparare da un cannone il corpo dell’uomo sospettasse soltanto d’avere dei simili pensieri.

Ma nei momenti come questi, lo spirito suo veniva rabbonito dal piacere verso le più insignificanti monellerie e le casette cinesi di Trianon. Diveniva un amico diretto della natura e desiderava un affetto a suffragio universale o per lo meno l’affetto di qualcuno.

Tali atteggiamenti gli venivano come degli accessi e allora una rudezza del comportamento veniva considerata sincerità, una stupidità diveniva schiettezza, una scaltrezza – bontà d’animo e un attendente-turco, che puliva e lustrava i suoi stivali, era elevato al titolo di conte.

Jurij Aleksandrovič, con un fiuto superiore, intuiva una svolta verso quel mutamento.

Attese più o meno una settimana e poi fiutò.

A passettini silenziosi, ma gai, girò per un po’ intorno al paravento di vetro e tutto d’un tratto aveva raccontato al Monarca, celandosi nella semplicità del cuore, tutto quello che lui stesso conosceva del sottotenente Kižé, ad eccezione, s’intende, del particolare del segno camuso.

A questo punto l’imperatore scoppiò in una risata fragorosa, rauca e discontinua, tanto latrata e talmente cagnesca, come se stesse cercando di far rabbrividire di paura.

 Jurij Aleksandrovič s’inquietò.

Non desiderava altro che fare un favore a Nelidova, portandole una lieta notizia come un buon amico di casa, ed inoltre rilevare per inciso la propria importanza; giacché, secondo un proverbio germanico, in voga a quei tempi, umsoust ist der Tod: è gratis soltanto la morte. Una risata, invece, come questa poteva causare a Jurij Aleksandrovič una nuova svolta del tutto imprevedibile ed essere persino un’arma per una spietata fine.

E se si trattasse di puro sarcasmo?

Ma no, non fu così, l’imperatore dopo essersi sfinito dalle allegre risa, allungò la mano, prese una penna, e Jurij Aleksandrovič, mettendosi in punta di piedi, seguendo la mano dell’imperatore, lesse:

Richiamare indietro il sottotenente Kižé, deportato in Siberia, promuovere a tenente, e fare sposare con quella stessa damigella d’onore.

Dopo averlo scritto, l’imperatore fece alcuni passi per la stanza con ispirazione.

Batté le mani e, accompagnandosi con un fischio, si mise a cantare la sua canzone preferita:

Un’abetaia, la mia abetaia,

Il bosco di betulle fitto, caro mio…

E la voce acuta e lamentevole di Jurij Aleksandrovič gli fece coro:

«Ljuli – ljuli – mia abetaia; –  ljuli – ljuli – caro mio…»

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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