Nella quarta sezione Acustiche dell’anima, il poeta analizza l’essenza della lingua che «deve muoversi / come su una lama, nelle trame tra il si e il no» (sic, p. 83). Ancora una volta, il focus esalta il valore della parola come predisposizione verso l’ascolto, verso la conoscenza e l’accoglienza delle cose materiali come «strumento del detto e del dire, / del silenzio e dell’urlo». Ecco che, attraverso la lingua, si può scoprire la natura e il suo evolversi in maniera graduale. Tutto ciò richiede pazienza nell’imparare: «A chi sa attendere qualcosa viene. Natura / è luogo di fili invisibili. C’è mondo, c’è lotta, / tra cardi spinosi, formiche, mosche carnarie, / su rovi, muri crepati, pietraie, in giorni / senza fine e attese senza tempo» (p. 111). Un attore immaginario che, oltre a saper attendere, ha «solo un tempo, il tempo dell’apparizione» (p. 122) e che, quindi, rimane immerso nella solitudine. Il verso «sta solo come una lacrima» indica questo senso di abbandono e di annullamento, perché «se non c’è l’altro non c’è traccia di me» (p. 126), in una ‘finta’ dicotomia tu-io che in realtà è una sola parola.
L’attore immaginario con il suo indagare e interrogarsi si rivela come soggetto desiderante di conoscere: «il desiderio è filo sottile fragile, vulnerabile / e si spezza continuamente aprendo spazi di deserto e derive» (p. 164). L’io non è altro che «una categoria biologica fatta di desiderio e di / bisogno» che si nutre della necessità di scavare in profondità, di cogliere i cavilli che caratterizzano la natura e di farli propri in base alle diverse sfumature del sentire. Di conseguenza, nella prospettiva dell’autore, è come se l’attore di per sé non avesse identità, proprio come un liquido che assume la forma di un contenitore. L’essere umano non ha voce se non è in grado di ascoltare e captare ciò che lo circonda. In una sorta di parallelismo che ricorda per diversi tratti la poetica del fanciullino pascoliano: è lui che ci chiama a guardare la natura con gli occhi della meraviglia, che ci invita ad approfondire l’aspetto superficiale dell’afferrabile, che ci suggerisce all’orecchio le parole da pronunciare. E noi non siamo altro che apparizione momentanee, comparse, incaricate di dar voce al nostro io interiore, alla realtà esterna e alla commistione dei due.
È proprio questo il senso della poesia di Marcello Sambati, che trova esplicazione nell’epilogo del libro: «Incitandosi a desiderare e a vivere, a / cercare e rinunciare, a tacere e gridare se stesso come / luce, voce e vita»
[Recensione a Marcello Sambati, Atlante dell’attore immaginario, Calimera (LE), Kurumuny, 2022, pp. 168, euro 15.00 – ISBN 9791281083097]