Ambientata nei paesini del Salento in un torno di tempo che va dal dopoguerra agli Anni Trenta, la fabula del romanzo si snoda lungo un insieme di traversie che ruotano attorno a Niceta Ardito (detto Teta) e Rosa, entrambi rimasti vedovi, e ai loro figli. Le vite di Teta e Rosa, unite da seconde nozze, legano indissolubilmente anche quelle della rispettiva prole. Giulia, ad esempio, figlia di Teta, ha una burrascosa relazione con il figlio di Rosa, Antonio. Dalla violenza sessuale subita da Antonio, che successivamente morirà in guerra, Giulia concepirà un figlio. Anche Teta e Rosa avranno un altro figlio. Emblematico, a tal proposito, il dialogo che si svolge tra i due coniugi, durante la notte, nel letto: «Ehi- disse (Rosa) – ti devo dire una cosa». «Che devi dirmi?», gemè (Teta). «Sono incinta, sai!». «Maledizione, fece Teta, e provò la sensazione di essere legato al letto e schiacciato da un peso enorme. Ah! Rosa, Rosa, perchè mi fai altri figli? Si fa per vivere e invece questa vita ti si rivolta controe ti divora».
Altrettanto complessa e infelice la storia di Gino, un altro figlio di Rosa, che torna a casa dopo un’avventurosa fuga a Torino in seguito ai fatti dell’8 settembre 1943, segnato da gravi disturbi mentali e alla disperata ricerca della donna amata in gioventù.
Una trama che potrebbe far pensare frettolosamente a un romanzo di ritardata tradizione meridionalista e neorealista. Gli elementi che forniscono tale prima chiave di lettura sono l’ambientazione meridionale, la coralità delle voci dei vinti che vivono ai margini della storia.
Illuminante, per fugare ogni dubbio, la risposta che la scrittrice fornisce a Vittorini in un articolo del 1986, apparso su «Quotidiano di Lecce», il cui titolo, Il Salento strizzò l’occhio a Vittorini, richiama il romanzo dell’autore siciliano Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, pubblicato nel 1947.
Nell’articolo la Durante racconta il suo incontro con Vittorini, avvenuto nel ’56 in occasione dell’assegnazione del Premio Salento assegnatogli per il romanzo Erica e i suoi fratelli – La garibaldina, e la polemica che nacque a proposito del dattiloscritto de La malapianta, che la scrittrice gli aveva inviato nel 1961. Il giudizio di Vittorini a questa prima stesura era fortemente critico e severo. L’autore di Conversazione in Sicilia infatti, riteneva ormai datato l’approccio narrativo del romanzo della Durante, ancorato ai dettami della letteratura neorealista e meridionalista. Pur dissentendo dalle posizioni di Vittorini e dal suo «abbandono del Sud» (p. 9), la Durante procedette a una revisione del suo romanzo.
Tale slittamento dal progetto iniziale fu senza dubbio corroborato dalla diffusa istanza di innovazione che animò i primi anni Sessanta, si pensi ai fermenti letterari apportati dal Gruppo ’63 o dalla linea espressionistica sperimentale di Pasolini.
Anche lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, seppur con esiti differenti dalla Durante, aveva tradito lo schema di partenza del suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, pubblicato con Mondadori un anno prima de La malapianta. Consolo, allo stesso modo della Durante, aveva messo al centro della propria opera la sua terra popolata da contadini e pescatori, ambientandola nel medesimo arco di tempo, nel secondo dopoguerra. La ferita dell’aprile, alla fine, andò oltre le rappresentazioni fotografiche e mimetiche dell’impianto neorealista, in favore di una scelta espressionistica e sperimentale.
Nell’Introduzione alla Malapianta, il curatore Giannone propone una rilettura del romanzo che, a partire dalle considerazioni vittoriniane, mette in evidenza le tematiche principali, attraverso un esame rigoroso della tecnica narrativa utilizzata dall’autrice e un affondo sulla psicologia dei personaggi. Da questa puntuale analisi emergono l’originalità e l’innovazione dell’opera, che, prendendo le mosse dalle istanze del modernismo, risultino di estrema attualità anche nel campo letterario e cinematografico degli anni Sessanta. Basti pensare alle opere narrative di Alberto Moravia e ai film di registi quali Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman.
Ne La malapianta, infatti, si possono ritrovare infatti i topoi ricorrenti del romanzo modernista: alienazione, rapporto conflittuale con la realtà, disagio e tormento interiore dei protagonisti, che sembrano irrimediabilmente colpiti da quel “male oscuro”, che ricorda il titolo del noto romanzo di Giuseppe Berto (Premio Viareggio e Premio Campiello), pubblicato lo stesso anno del romanzo della Durante. Non solo la fame, dunque, ma anche la solitudine e l’incomunibilità segnano la vita della famiglia Ardito; pregnante il monologo interiore di Teta sull’incapacità di instaurare un dialogo coi figli: «Se almeno mi si sciogliesse la lingua, una volta sola, per parlare con loro. So come lo dovrei fare, so cosa dovrei dire, ma non ci riesco, non ci riesco» (p.66).
Persino il paesaggio è foriero di questo malessere esistenziale: la campagna salentina diviene allora – ricorrendo a un procedimento caro a Montale – il correlativo oggettivo degli animi dei personaggi: «Se ne stava (…) meditabondo sotto il sole che affondava le sue frecce implacabili dentro la terra, giù fino alle radici degli alberi» (p. 72); «Pensava la pianura brulla sotto il cielo plumbeo, mezzo tramonto e mezzo notte fonda, con qualche stella alta, più che astro, (…) nell’unica direzione suggerita dalla pianura asimetrica e inespressiva come una statua senza volto» (p. 119).
La disamina di Giannone mette in luce anche un aspetto di assoluta originalità del romanzo di Rina Durante rispetto ai riferimenti letterari del suo tempo. Per la prima volta, infatti, sulla scena ci sono i contadini di un’area depressa del Sud, che, allo stesso modo della classe borghese dei romanzi di Alberto Moravia sono affetti da quella malattia degenerativa che azzera le relazioni sociali e annienta i rapporti tra uomo e uomo e uomo e realtà.
Per quanto riguarda le scelte linguistiche e lessicali, ne La malapianta si incontrano frequenti dialettismi, talvolta adattati alla lingua italiana, altre volte conservarti nella loro forma originale. Come conclude Giannone, però, anche l’uso del dialetto è orientato verso forme più sperimentali di narrativa, quasi a volersi affrancare dal modello verghiano per accostarsi alla marca espressionistica di Gadda e Pasolini, in quanto tali termini «non sono mai usati in maniera mimetica, cioè per caraterizzare ambiente e personaggi, ma assumono una valenza estrinseca, quasi decorativa» (p. 24).
[Recensione a Rina Durante, La malapianta, a cura di A L. Giannone, Lecce, Zane Editrice, 2015, in «Oblio», VI, 22-23]