L’effimero che ammassa la memoria produce questo destino. Dopo i miseri minuti di gloria che spettano a tutti, si precipita nel pozzo senza fondo dell’oblio.
Ma forse si potrebbe anche dire che poi, alla fine, non c’è nulla di nuovo, che è sempre stato nel modo in cui si ha paura che sia diventato o che possa diventare, che cambiano le forme ma non la sostanza dell’oblio. Probabilmente quello scrittore prodigioso di Lisbona che si rifugiava negli eteronimi di Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Alvaro de Campos, Bernardo Soares, quel signore che in realtà si chiamava Fernando Antònio Nogueira Pessoa, il senso radicale lo aveva compreso.
In una poesia – una delle sue più belle poesie – c’è un uomo che si avvicina alla finestra e guarda fuori. Vede le botteghe, i marciapiedi, le macchine passare, le creature che s’incrociano, i cani per la strada, il padrone di una tabaccheria che si affaccia sulla porta.
L’uomo che guarda dalla finestra pensa che il padrone della tabaccheria “lascerà l’insegna, io lascerò dei versi./ A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi./ Dopo un po’ morirà la strada dove fu stata l’insegna,/ E la lingua in cui furono scritti i versi./ Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde”.
Poi pensa che forse in altri satelliti di altri sistemi, qualcosa di simile alla gente continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne, “sempre una cosa di fronte all’altra,/sempre una cosa inutile quanto l’altra,/sempre l’impossibile, stupido come il reale,/sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,/sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè una cosa nè l’altra”.
Allora, se tutto finisce, se tutto deve finire, non è possibile pensare che l’arte possa durare più di qualsiasi altra cosa. Per un poema che dura cent’anni, centomila poemi muoiono negli stessi anni, e nessuno può essere certo che quello che sopravvive sia migliore di quello che scompare. E’ solo il caso che decide il destino dell’arte, e forse di tutto. Nient’altro. Quello che conta sempre di più, dunque, non è la durata della memoria dell’opera che facciamo ma la profondità della memoria che noi abbiamo e per la quale pensiamo ed elaboriamo un’opera.
L’uomo di Fernando Pessoa che guarda dalla finestra, il problema della memoria e della durata dell’opera non se lo pone nemmeno, oppure considera che sia assolutamente inutile porselo: pensa che è una speculazione che non può produrre risultato. Lui continua a scrivere versi. Per se stesso, prima di tutto. Forse anche per i pochi che gli sono intorno. Forse, addirittura, per molti dei suoi contemporanei. Certamente non per i posteri, non per l’ambizione di durare, non per aspirazione verso la memoria. Forse per il passato. Per gli antenati.
Ecco. Magari si scrive, si dipinge, si fa musica, semplicemente per gli antenati. Per giustificare a chi c’è stato prima il proprio essere qui e ora. Come per dire: vedete? non sono inutile; non passo senza traccia; cerco di ripagarvi di quello che ho avuto da voi con quello che so fare meglio o soltanto con l’unica cosa che so fare.
Forse è solo questo il motivo per cui si lascia un colore su una tela, una pagina scritta sopra un foglio o su un file, una musica incisa in un disco.
Ma poi. E’ difficile e forse anche insensato fare qualcosa per chi non esiste. E’ facile e anche doveroso fare qualcosa per chi è esistito. I posteri non esistono. Sono un’astrazione. Sono un’illusione. Sono esistiti quelli venuti prima di noi, ai quali dobbiamo molto, o forse tutto.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 27 agosto 2023]