di Antonio Errico
Non è mai stato saggio e neppure giudizioso pensare ad un arte – un romanzo, un mannello di poesie, una musica, un dipinto, una scultura – in funzione dei posteri. Chiunque faccia un’arte può solo avere speranza che un giorno, quando anche lui diventerà antenato, ci sia qualcuno che per gli antenati scriva un capolavoro o soltanto il suo inizio, che affreschi una volta o dia soltanto una pennellata, che componga una sinfonia o che strimpelli quattro accordi di chitarra. Forse potrebbe essere assennato pensare ad un’arte, in modo umile e con riconoscenza, in funzione degli antenati, come giustificazione nei loro confronti del proprio essere su questa terra.
Non è mai stato prudente, dunque. In questo tempo lo è ancora di meno. Perché nella dimensione culturale dell’effimero, della provvisorietà, della liquidità del tutto, l’arte e l’artista si consumano nella brevità dispettosa del presente.
Non c’è scrittore straordinario di questo tempo che possa essere tanto innocente da pensare di poter durare quanto Dante Alighieri, né pittore quanto Cimabue. Di quello che è oggi, domani non resterà non altro che un ammasso confuso; le opere non avranno gerarchia; sarà difficile compilare una qualsiasi storia dell’arte, della musica, della letteratura, del teatro, del cinema, perché tutto sarà durato la dispettosa brevità del presente. Certo, per fare una storia si potrà adottare il criterio delle classifiche, delle vendite. Ma questa è un’altra storia: è una storia di mercato.
L’arte è diventata provvisoria, come tutte le altre cose.