Racconti sovietici 8. Il sottotenente Kiže 3

La sera, prima di coricarsi, faceva qualche partita a carte con il suo attendente. Gli aveva insegnato lui stesso un paio di giochi e, quando l’attendente perdeva una partita, il tenente gli dava dei buffetti sul naso con il mazzo di carte, invece quando perdeva lui, non glieli dava. Infine, controllava l’equipaggiamento militare, tirato a lucido dall’attendente, arricciava personalmente la sua parrucca, ne intrecciava ed ungeva la treccia e si metteva a letto.

Adesso, invece, non si era disteso neppure per un momento, i suoi muscoli erano tesi e gonfi e perfino non si avvertiva il respiro uscire dalle strettissime labbra del tenente. Stava studiando con lo sguardo la piazza degli scambi della guardia e gli sembrò di non riconoscerla. Per lo meno non si era mai accorto prima dei cornicioni sulle finestre di questo rosso edificio statale, né dei suoi vetri opachi.

I ciottoli tondi del suolo erano dissimile l’uno dall’altro come dei fratelli diversi.

In grand’ordine, nell’accuratezza grigia, si distendeva davanti una San Pietroburgo soldatesca, con i suoi romitaggi, i fiumi e “gli occhi torbidi” del lastrico: una città del tutto sconosciuta.

Allora comprese di essere morto.

8

Pavel Petrovič sentì i passi dell’aiutante e furtivamente, a passo felpato, si avvicinò alla poltrona dietro il paravento di vetro e si sedette, esibendo un atteggiamento, come se fosse restato seduto per tutto il tempo.

Sapeva riconoscere i passi delle persone al seguito. Stando seduto di schiena, distingueva lo scalpiccio di quelle sicure, il saltellare di quelle servili e i passi leggeri, ariosi di quelle terrorizzate. Non sentiva mai passi decisi di una persona franca.

Questa volta l’aiutante camminava con sicurezza, appena appena scalpicciando. Pavel Petrovič voltò leggermente la testa.

L’aiutante si avvicinò solo a metà dal paravento ed abbassò la testa.

«Maestà! “Guardie” aveva gridato il sottotenente Kižé.»

«Chi è costui?»

La paura si placava un po’, riusciva ad ottenere un cognome.

La domanda non era stata ipotizzata dall’aiutante, quindi fece un passettino indietro.

«Un sottotenente che è assegnato a montar la guardia, Sire.»

«E perché aveva gridato?» – l’imperatore sbatté un piede. «L’ascolto, signor aiutante!»

L’aiutante tacque per un po’.

«Per un’irragionevolezza» – balbettò

«Eseguire un’istruttoria e, dopo averlo punito con la frusta, mandare a piedi, in Siberia!»

9

Così ebbe l’inizio la vita del sottotenente Kižé.

Quando lo scrivano ricopiava l’ordinanza, il sottotenente Kižé era uno sbaglio, un errore di scrittura, niente più. Si poteva non accorgersene e sarebbe affondato nell’oceano delle scartoffie e, dato che l’ordinanza non presentava alcun interesse o curiosità particolari, difficilmente gli storici del futuro l’avrebbero richiamata alla memoria.

L’occhio cavilloso di Pavel Petrovič la tirò fuori e con un segno deciso le diede una vita discutibile; un errore di scrittura divenne il sottotenente Kižé, senza un volto, ma con un cognome.

Dopo, in un’idea discontinua dell’aiutante, si delineò il suo volto, a dire il vero, appena percettibile, fioco, come in un sogno. Era stato lui a gridare: “Guardie!” sotto le finestre del palazzo.

Adesso questo volto si era indurito e affilato: il sottotenente Kižé si era rivelato essere un malintenzionato ed era stato condannato alla fustigazione sul cavalletto e alla deportazione in Siberia.

Era una realtà.

Finora non era altro che una preoccupazione dello scrivano, uno smarrimento del comandante ed un’ingegnosità dell’aiutante.

D’ora in avanti: cavalletto, fustigazione, viaggio in Siberia erano divenuti una faccenda tutta sua, un dossier personale.

L’ordine doveva essere eseguito. Il sottotenente Kižé doveva abbandonare l’istanza militare, passare all’istanza giuridica, e da lì, mettersi in cammino lungo una strada verde dritto dritto in Siberia.

E così fu fatto.

Nel reggimento, dove avrebbe figurato sulle liste, il comandante, con la voce tanto tuonante come capita d’avere ad un uomo del tutto smarrito e confuso, chiamò, per presentarsi davanti all’intero schieramento, il nome del sottotenente Kižé.

Da un lato stava già pronto un cavalletto per le fustigazioni, e due soldati della guardia lo avevano avvolto e stretto con le cinghie in testa e in coda. Due soldati della guardia, da entrambi i lati, sferzavano le fruste a sette code sul legno liscio del cavalletto, un terzo faceva la conta, e tutto il reggimento guardava.

Siccome il legno era stato levigato precedentemente da migliaia di pance, il cavalletto sembrava non del tutto vuoto. Sebbene non avesse nessuno sopra, era come se qualcuno ci fosse. I soldati del reggimento, aggrottando le sopracciglia, fissavano il cavalletto silenzioso e il comandante, una volta finita l’esecuzione della pena corporale, arrossì e le sue narici si gonfiarono come sempre.

Dopo le cinghie vennero tolte, ed era come se liberassero sopra il cavalletto le spalle di qualcuno. Due guardie si erano avvicinate e si misero sull’attenti in attesa di un comando.

Si misero in cammino lungo la strada, allontanandosi dal reggimento a passo regolare, i fucili in spalla, dando ogni tanto uno sguardo indiretto, non l’uno all’altro, ma su uno spazio racchiuso fra loro.

In una riga era schierata una giovane recluta, che seguiva l’esecuzione della pena corporale con tanto interesse. Credeva che quel che stava succedendo fosse una faccenda comune che spesso avveniva sotto le armi.

Di sera però all’improvviso si mise a rivoltarsi sul tavolaccio e, rivolgendosi piano piano ad un soldato anziano, sdraiato vicino, domandò: «Brav’uomo, chi è il nostro Imperatore?»

«Pavel Petrovič, stupidone» – rispose l’anziano con spavento.

«Lo hai mai visto?»

«L’ho visto» – mormorò l’anziano, – «e lo vedrai anche tu.»

Tacquero. Ma neppure l’anziano riusciva a addormentarsi. Si girava e rigirava. Trascorsero una decina di minuti.

«E perché me lo chiedi?» – chiese all’improvviso l’anziano al giovane.

«Non lo so» – rispose volentieri il giovane, – «ne parlano, parlano: l’Imperatore, ma chi è non si sa. Forse è solo dicono…»

«Sei proprio uno scemo» – disse l’anziano e diede una sbirciata attorno, – «meglio se taci, burino.»

Passarono altri minuti. Nella caserma era buio e silenzio.

«Lui c’è» – disse all’improvviso l’anziano nell’orecchio del giovane, – «e solo che lui non è lui, ma è uno scambiato.»

10

Il tenente Sinjuchaev gettò uno sguardo attento alla stanza dove aveva abitato sinora.

Una stanza spaziosa dai soffitti bassi, con un ritratto appeso sul muro che ritraeva un uomo di mezz’età con degli occhiali e una corta treccina. Si trattava del padre del tenente, dottor Sinjuchaev, che viveva a Gatčina, ma guardando il ritratto adesso, il tenente non avvertì tutta la sicurezza che fosse così. Forse sta vivendo, o, forse, non c’era più.

Dopo diede uno sguardo agli oggetti appartenuti al tenente Sinjuchaev: un oboe d’amour all’interno di un piccolo astuccio di legno, una pinza arricciacapelli per la parrucca, un barattolino di cipria, un portasabbia; e tutte queste cose lo guardarono così che dovette distogliere lo sguardo.

Rimase fermo in mezzo alla stanza ad attendere qualcosa. È poco probabile che aspettasse l’attendente.

Intanto fu proprio l’attendente ad entrare con prudenza nella stanza e fermarsi sull’attenti davanti al tenente, fissandolo a bocca aperta, come un babbeo.

Probabilmente, si fermava sempre in quel modo, aspettando delle disposizioni, ma il tenente lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, ed abbassò gli occhi.

Conveniva per il momento occultare la morte, come un reato. Verso sera nella sua stanza entrò un giovanotto, si sedette al tavolo, dove era rimasto l’astuccio con l’oboe d’amour, lo tirò fuori dall’astuccio, soffiò dentro e, non riuscendo a produrne neppure un solo suono, lo mise in un angolo della stanza.

Poi chiamò l’attendente e gli disse di servire una spuma alla frutta. Neppure una volta diede uno sguardo al tenente Sinjuchaev.

Il tenente invece, con la voce piena d’angoscia, domandò: «Chi è lei?»

Il giovanotto, sorseggiando la spuma del tenente, sbadigliò, e rispose: «Sono un cadetto della scuola allievi ufficiali del Senato» – ed ordinò all’attendente di preparargli il letto. Si mise poi a spogliarsi e il tenente Sinjuchaev seguì a lungo come il cadetto si toglieva gli stivali e li buttava rumorosamente sul pavimento, si slacciava l’abito, si spogliava, si sdraiava sotto le coperte e sbadigliava. Stiracchiandosi infine, il giovanotto all’improvviso diede uno sguardo ad un braccio del tenente Sinjuchaev e gli tirò dal risvolto della manica il suo fazzoletto di tela e soffiandosi il naso, nuovamente sbadigliò.

Soltanto allora il tenente Sinjuchaev mostrò finalmente di conservare una qualche presenza dello spirito, affermando che tutto questo era assolutamente contrario alle regole.

Il cadetto con indifferenza gli ribatté che, viceversa, tutto era assai conforme alle regole; e che le sue proteste erano del tutto inutili, in quanto lui era oramai un ex Sinjuchaev: «perché è morto», e gli impose, tra l’altro, di togliersi la divisa militare, che al cadetto sembrava ancora abbastanza presentabile, e di indossare quella logora, quella vecchia ormai da buttare.

Il tenente Sinjuchaev cominciò a togliersi la sua uniforme ed il cadetto lo aiutò, spiegandogli che l’ex Sinjuchaev, facendo da sé, potrebbe farlo male: «Non come si deve!».

Dopo, l’ex Sinjuchaev indossò una sua divisa militare ormai inutilizzabile e rimase per un po’ fermo, temendo che il cadetto pretendesse di tenere anche i suoi guanti. Aveva dei lunghi guanti gialli con le dita squadrate, quelli da uniforme. Perdere i guanti è un disonore, aveva sentito dire. Un tenente con i guanti, comunque sia, è sempre un tenente. Per questo, infilandosi sulle mani i suoi guanti, l’ex Sinjuchaev si voltò e si precipitò per andar via.

Tutta la notte girovagò per le vie di San Pietroburgo, non provando neppure d’entrare in qualche posto. Verso il mattino era talmente stanco che sedette a terra vicino ad un edificio. Si appisolò per pochi minuti, poi, all’improvviso, si alzò bruscamente e si mise a camminare non guardandosi attorno.

Presto superò il limite della città. Un semiaddormentato torschrejber_ alla sbarra dell’uscita, annotò distrattamente in un registro il suo nome.

Non tornò mai più in caserma.

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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