Sospesi tra l’amara cronaca degli incendi che, lo sappiamo, hanno funestato l’estate mediterranea (e non solo) e la percezione di un mondo che va inaridendosi e morendo nei rapporti umani come divorato da un fuoco freddo che tutto brucia e distrugge lasciando lande sterili e desolate, i versi di Ilaria Seclì s’inarcano posseduti dal dolore profondo e dalla riaffermazione testarda che no, che non può e non dev’essere così, che una parola rimane viva e feconda, che “un ritorno” dev’essere possibile.
La sapienzialità della poesia di Ilaria quando si accosta al mondo esprime sempre la cura per il vivente e l’angoscia che il mondo possa sfaldarsi, corrompersi, condannarsi a essere una terra desolata. Ecco profilarsi, allora, figure di persone (specialmente donne e bambini) umili per estrazione sociale ma nobilissime e sapienti per umanità e generosità, ecco che la natura offre sempre una possibilità di salvezza che, spesso, coincide con la parola poetica (o la suggerisce) – ché quello di Ilaria Seclì non è un affidarsi ingenuo alla “bellezza che salverà il mondo” o alla “Poesia”, ma la consapevolezza lucida e non illusa che trovare la parola che verbalizza e dice DENTRO quello che accade è atto etico e culturale, esistenziale e conoscitivo per impedire il morire del vivente.
La scrittura di Ilaria compie questa meraviglia: occorre abbandonarsi a essa, leggerla e rileggerla cercando e trovando l’energia che la percorre e che risiede nell’accostamento delle immagini, nella sintassi, negli scarti improvvisi e questo accade perché un testo come Dopo i fumi, per esempio, porta il linguaggio ben oltre la sua funzione semplicemente comunicativa o descrittiva, restituendogli il suo portato etico di fronte al mondo, il suo legame profondo con l’esistere, la sua filiazione dalla terra.