Racconti sovietici 8. Il sottotenente Kiže 2

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Il tenente Sinjuchaev era un tenente insignificante. Suo padre faceva il medico curante del barone Arakčeev e il barone, in ricompensa per certe pasticche che riuscivano a ristabilirgli le forze vitali, fece sistemare il figlio del suo medico, agendo alla chetichella, nel prestigioso reggimento. L’aspetto semplice e un po’ stupido del giovane piacque al barone. Nel reggimento costui non aveva allacciato rapporti di buon’amicizia con nessuno, ma non si teneva neppure in disparte dai compagni. Era un taciturno, un intenditore del tabacco, non correva come un forsennato dietro alle gonne e l’unica cosa che lo distingueva dall’essere del tutto un valente ufficiale, era il fatto che adorava suonare “l’oboe d’amour”.

L’equipaggiamento militare aveva sempre in perfetto ordine.

Al momento della lettura dell’ordinanza per il reggimento, Sinjuchaev stava sull’attenti come di solito; nessun pensiero sfiorava la sua mente.

Tutt’ad un tratto sentì pronunciare il suo nome e tremò con gli orecchi, come succede ai cavalli impensieriti per una frustata inattesa.

«Il tenente Sinjuchaev, in quanto defunto nel decorso di una febbre, è da considerare cancellato dai ruoli di servizio».

Qui accadde che il comandante impegnato nella lettura dell’ordinanza diede uno sguardo spontaneo su quel posto in fila, dove solitamente si trovava Sinjuchaev e la sua mano con il foglio di carta cadde giù.

Sinjuchaev stava sull’attenti al posto di sempre. Presto, tuttavia, il comandante riprese lettura dell’ordinanza; a dire il vero, non più in modo ben scandito come prima; lesse dei sottotenenti Stiven, Pybin, Azančeev, Kižé, e così portò a termine la lettura. Era iniziato il cambio delle guardie e Sinjuchaev avrebbe dovuto, insieme a tutti gli altri, proseguire nell’esercitazione delle figure d’addestramento formale ed invece rimase fermo.

Era abituato a dar ascolto alle parole delle ordinanze come a parole particolari, del tutto dissimili dal linguaggio umano. Non contenevano né un concetto né un significato, ma la vita propria e il potere.

Non si trattava puramente del fatto: è stata eseguita o meno un’ordinanza. L’ordinanza in qualche modo cambiava comunque i reggimenti, le strade e la gente, anche se talvolta non veniva osservata.

Appena aveva sentito i termini dell’ordinanza, dapprima era rimasto fermo sul proprio posto come una persona dura d’orecchio, continuando a protendersi verso l’ascolto delle parole. Poi smise di dubitare. È di lui, che avevano letto. A questo punto, quando la sua colonna si mise a marciare, cominciò a dubitare se davvero era vivo.

Sentendo la mano appoggiata sull’elsa, un certo fastidio sul corpo delle bandoliere strette, il peso della treccia di una parrucca che proprio quella mattina aveva fatto ungere, gli sembrava in un certo senso d’essere ancora vivo, però riconosceva che comunque qualcosa non quadrava più, qualcosa era stata rovinata irrimediabilmente. Neppure una volta lo sfiorò il pensiero che ci fosse un errore nell’ordinanza. Viceversa, gli era sembrato d’essere vivo per un errore, per una cantonata. Per una negligenza non si era accorto di qualcosa e nessuno lo aveva informato ed avvertito.

In ogni caso, rovinava tutte le figure di marcia formale delle guardie, continuando a rimanere fermo come un paletto in mezzo alla piazza, ma neppure aveva pensato di muoversi.

Non appena terminò la marcia formale delle guardie, il comandante si scagliò contro il tenente. La sua faccia era paonazza dalla rabbia. Era una vera fortuna che, grazie ad una giornata molto calda ed afosa, alla marcia delle guardie non aveva presenziato l’imperatore in persona, che si godeva una vacanza a Pavlovskoe. Il comandante voleva già abbaiare al subordinato con delle ruggenti rrr: agli arresti – ma all’improvviso la sua bocca si richiuse, come se per caso vi fosse entrata una mosca. Rimase fermo davanti al tenente Sinjuchaev per un paio di minuti.

Poi, si scostò bruscamente, come da un appestato e si diresse per la sua strada.

Si ricordò che il tenente Sinjuchaev, essendo defunto, era stato estromesso dal servizio e si trattenne, in quanto neppure sapeva in che modo avrebbe potuto discutere con una persona simile.

6

Pavel Petrovič camminava nel silenzio della sua stanza e di tanto in tanto si fermava.

Tendeva l’orecchio.

Nel momento che l’imperatore con gli stivali impolverati ed un soprabito da viaggio passò, risuonando gli speroni, lungo la sala dalla quale ancora la raucedine di sua madre non era sparita del tutto, nonostante fosse morta, e sbatté fortemente la porta, divenne palese che una grande ira era divenuta un’ira immensa; l’ira immensa si esauriva a scadenza di due giorni esatti con terrore, per paura o con commozione.

Le chimere sulle scale della reggia Pavlovskoe erano un’opera dell’architetto furioso Brenna; invece, i plafoni e le pareti erano una creazione di Cameron, dal culto per i toni tenui e i colori pastello, che stanno ormai svanendo agli occhi di tutti. Da una parte le fauci spalancate degli impennati leoni antropoidi, dall’altra un senso estetico.

Inoltre, nella sala dei ricevimenti del palazzo stavano appesi due lumi, un regalo di Luigi XVI da poco ghigliottinato. Questo regalo lo ricevette in Francia, ai tempi dei suoi viaggi in incognito per il mondo sotto il nome del conte Severnyj.

I lumi erano di una pregiatissima manifattura: avevano le sfaccettature per poter moderare la luce.

Tuttavia, Pavel Petrovič, evitava di farli accendere.

Così faceva anche con l’orologio, un regalo di Maria Antonietta, che stava sopra un tavolino di diaspro. Una lancetta che segnava le ore era un Saturno d’oro con una falce lunga, mentre l’altra, dei minuti, era un Cupido con la freccia.

Nel momento in cui l’orologio scandiva il mezzodì e la mezzanotte, la falce di Saturno sovrastava, nascondendola, la freccia di Cupido. Ciò significa che il tempo sconfigge l’amore.

Comunque sia, l’orologio non veniva mai caricato.

Pertanto, nel giardino abitavano gli esseri concepiti dall’arte di Brenna, un’impronta della presenza di Cameron ricopriva le pareti della reggia, mentre sopra la testa, in una vacuità del sotto soffitto, oscillava un lume di Luigi XVI.

Quando era in preda a un’immensa ira, lo stesso Pavel Petrovič assumeva le sembianze esteriori di uno dei leoni di Brenna.

Allora, come dal ciel nel dì sereno, cadevano le bastonate sugli interi reggimenti; nelle notti buie, alla luce delle torce, qualcuno veniva decapitato sul fiume Don; marciavano a piedi dritto dritto in Siberia: soldati comuni, scrivani, tenenti, generali, governatori generali.

L’usurpatrice del trono, sua genitrice, era ormai morta. Lo spirito di Potemkin fu scacciato da lui nella stessa precisa maniera, come fece a sua volta Ivan IV il Terribile con i boiardi. Fece disperdere perfino le ossa di Potemkin e radere al suolo la sua tomba. Distrusse il gusto stesso di sua madre. Quel gusto insopportabile di un’usurpatrice! L’oro, le sale tappezzate di sete indiane, le sale con le stufe di maiolica olandese piene zeppe di porcellane cinesi e la sala di cristallo blu, una tabacchiera. Un baraccone! Le medaglie antiche romane e greche; gli oggetti di cui sua madre era tanto orgogliosa, fece fondere tutto ed utilizzare per le dorature del suo castello.

Ciononostante, lo spirito rimase, rimase un sapore.

L’odore suo si avvertiva dappertutto, proprio per questo, probabilmente, Pavel Petrovič aveva l’abitudine di cercare d’individuare l’odore degli interlocutori. 

Quand’è che sopra la testa oscillava un impiccato mascalzone; un lume francese.

In conseguenza di ciò, arrivava la paura. All’imperatore mancava l’aria. Non temeva né moglie, né figli maggiori, ognuno dei quali, ricordandosi dell’esempio della nonna allegra e della suocera, avrebbe potuto pugnalarlo con una forchetta ed impadronirsi del trono.

Non aveva paura né di ministri allegri in un modo sospetto, né di generali sospettosamente tetri. Non temeva nessuno di quei cinquanta milioni di plebei che risiedeva fra asperità, paludi, sabbie e su campi del suo vasto impero, di cui, neppure volendo, ci si potrebbe fare un’idea esatta. Non li temeva tutti quanti, presi separatamente, ma uniti n’erano un mare, nel quale stava affogando.

Per questo ordinò di circondare di fossati e d’avamposti il suo castello di Pietroburgo e di sollevare sulle catene un ponte levatoio. Tuttavia, manco le catene erano affidabili: le presidiavano le guardie.

E quando un’immensa ira diveniva una paura immensa, si metteva a funzionare in modo forsennato la cancelleria degli affari criminali: qualcuno veniva torturato appeso per le braccia; sotto qualcuno sprofondavano le botole del pavimento e nelle oscurità dei sotterranei li attendeva più di un boia.

Per questo, quando nell’appartamento privato dell’imperatore si sentivano, tutto ad un tratto, or brevi or prolungati passi incespicati, tutti si scambiavano degli sguardi angosciati e molto di rado sorrideva qualcuno.

Nelle sue stanze regnava un’immensa paura.

L’imperatore brancolava nel buio.

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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