di Antonio Errico
Erano anni di chiaroscuro, di soglia, di confine, una stagione di passaggio, un’estremità, un varco, una linea d’ombra tra ambiguità e confusione, tra verità e menzogna, coerenze e contraddizioni, tra ragioni e passioni, illusioni e delusioni, contrasti, contrari, contrapposizioni, incomprensioni, analogie e differenze.
Come sia stato davvero quel tempo, forse lo ha detto Charles Dickens nell’ incipit de “Le due città”: era il peggiore dei tempi, era il migliore dei tempi, era l’ora della rovina, era l’età dell’abbondanza, era l’epoca dell’incredulità, era l’epoca della fede, era la stagione della luce, era la stagione del buio, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, avevamo tutto davanti a noi, non avevamo nulla davanti a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte.
Quel tempo lo aveva definito perfettamente Dickens, dunque, più di un secolo prima: nel 1859.
Sul finire di quegli anni, di quegli anni Settanta, Francesco Alberoni, scomparso qualche giorno fa, pubblicava “Innamoramento e amore”. Disse l’editore che dopo cinque mesi in libreria aveva superato le centomila copie. Tradotto in 25 lingue; un successo planetario. Con quel libro Alberoni attribuiva significati nuovi ai due concetti, alle esperienze derivanti da quei due concetti.