Nuove segnalazioni bibliografiche 19. Politica e filosofia

La morte di Socrate fu l’evento fondante il rapporto tra filosofia e potere all’interno della polis. Il messaggio del potere fu chiarissimo: il filosofo che liberamente avesse voluto manifestare il suo pensiero tra i concittadini, lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo (di qui l’azzardo e il relativo imbarazzo della definizione di filosofo); in alternativa, poteva benissimo trasformarsi in sofista o anche professore di filosofia, stando ben attento a non pestare i piedi del potente di turno. Ecco spiegata la ragione per la quale nessuno si azzarda ad esporre sulla porta di casa una targa con su scritto FILOSOFO.

Con questo non si vuol dire che la filosofia e i filosofi siano scomparsi. Semplicemente è accaduto a loro come alle acque d’un fiume che davanti alla fenditura della terra diventano carsiche, salvo poi riapparire quando meno te lo aspetti. La filosofia non è sprofondata sottoterra, ma è certo che, nel dibattito pubblico, occupa uno spazio marginale. I filosofi sono rari e i professori di filosofia nei licei e nelle università hanno una vita grama, sempre  un po’ sospetti quando non considerati inutili per la formazione del moderno consumatore; mentre non mancano i sofisti, tutti ben prezzolati e sempre presenti nel dibattito pubblico con le poche idee che sono in circolazione. Quel che disturba il potere – e Di Cesare mette ben in chiaro tutto ciò sin nel titolo del suo libro – è la irrinunciabile vocazione politica della filosofia, che inevitabilmente spinge il filosofo ad occuparsi della vita comunitaria della città. Il problema nasce dunque perché troppo spesso la politica è interpretata come la difesa ad oltranza degli interessi particolari di singoli gruppi di cittadini – le lobbies o gruppi d’interesse -, che perdono di vista il bene collettivo e si limitano a rivendicazioni parziali e dannose per il bene pubblico. Dalla lotta politica condotta in modo fazioso e spesso violento, il filosofo, che per sua natura è quasi sempre pacifico, risulta un perdente, uno sconfitto, e come tale è assimilato da Di Cesare agli ultimi della società: egli “si ritrova insieme ai numerosi stranieri, esuli, profughi, immigrati, fianco a fianco delle vittime della prepotente ricchezza finanziaria, tra gli accattoni e i giocatori d’azzardo, gli ambulanti e i nomadi, i disoccupati e i disperati, quei residui del “mondo di sogno” che ha prodotto orrendi incubi.” (p. 144). Insomma, potremmo considerare il filosofo come uno degli “scarti” della nostra società! Per la verità Di Cesare, che per sé non disdegna affatto  l’appellativo di filosofa, usa parole più gentili: il filosofo – dice – “si aggira per la città come un angelo caduto” (p. 143); ma la sostanza del discorso non cambia. Ed allora, caro mio lettore, durante la nostra passeggiata in città, come potevamo noi trovare una targa dorata con su scritto FILOSOFO?

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