Racconti sovietici 8. Il sottotenente Kiže 1

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Nella cancelleria del reggimento Preobraženskij, un vecchio scrivano militare è stato deportato in Siberia per una punizione.

Lo scrivano nuovo, giovanissimo, pressoché adolescente, stava seduto ad un tavolo e scriveva. La sua mano tremava, perché era rimasto un po’ indietro con il lavoro.

Si doveva finire di ricopiare in bella un’ordinanza interna del reggimento per le sei precise, affinché un aiutante in campo di turno la portasse alla reggia e, a sua volta l’aiutante di Sua Maestà, unendola a molte altre come questa, la presentasse per visione all’imperatore alle nove in punto. Un ritardo era un delitto. Il giovanissimo scrivano si era alzato quel mattino prima del solito appositamente, per terminare il lavoro per tempo, però aveva sbagliato nel trascrivere l’ordinanza e adesso la stava riscrivendo tutta daccapo. Nella prima copia dell’ordinanza gli errori che commise erano due: il tenente Sinjuchaev era stato trascritto per sbaglio in quanto defunto, perché nella lista il suo cognome era preceduto da quello del maggiore Sokolov defunto realmente; e poi aveva fatto una trascrizione del tutto insensata, dove, anziché scrivere: i sottotenenti invece Stiven, Pybin e Azančeev vengono designati.., scrisse: il sottotenente Kiže, Stiven, Pybin e Azančeev vengono designati... E’ accaduto, perché al momento in cui stava trascrivendo accuratamente la parola: podporučik_, nella stanza era entrato un ufficiale, perciò dovette saltar in piedi per un saluto militare e, una volta ripreso a scrivere, si confuse e non aggiunse all’ultima parola scritta la lettera: i, in quanto rileggendo, l’ultima parola scritta aveva già in sé un significato compiuto: il sottotenente, che doveva precedere il cognome del sottotenente e così riscrisse le due lettere finali della parola precedente podporučiki_, e cioè Ki,iniziando con una maiuscola, come se si trattasse del cognome, e le unì, sempre per sbaglio, alla congiunzione avversativa žé_ seguente, quindi scrisse: Il sottotenente Kižé, …

Sapeva che se per le sei in punto l’ordinanza non fosse stata pronta per la consegna, l’aiutante in campo di turno avrebbe urlato: «Prendetelo!» – e lo avrebbero arrestato. Per questo la mano smise di obbedirgli, scriveva sempre più a rilento e all’improvviso fece schizzare, sulla copia nuova dell’ordinanza, una bella macchia d’inchiostro, grossa come una fontana.

Rimanevano soltanto altri dieci minuti.

Abbandonandosi sullo schienale della sedia, lo scrivano diede uno sguardo all’orologio come ad un uomo minaccioso in carne e ossa; poi con le dita, come se fossero estraniate dal resto del corpo e soggette alla volontà tutta loro, cominciò rovistare tra le carte sulla scrivania in cerca di un foglio netto, anche se lì i fogli puliti non avrebbero potuto esserci, ma stavano tutti riposti in una risma ordinatissima dentro un armadio.

Così, oramai preso dalla disperazione e soltanto tutt’al più per ultimo decoro verso se stesso, proseguendo a rovistare, rimase stupefatto per la seconda volta.

Un altro documento, non meno importante di questo, era anche trascritto in un modo sbagliato.

Secondo la proposta imperiale n. 940, riguardante la conformità della terminologia unitaria nelle relazioni militari, si decretava l’utilizzo della parola esaminare, anziché “osservare”, adempiere e non “eseguire”, non scrivere mai “sentinella”, ma guardia, e in nessun caso scrivere “distaccamento” o “pattuglia”, ma usare un termine tedesco: detashement.

C’era anche un’aggiunta, riguardante le disposizioni di carattere civile e cioè: non scrivere “rango”, ma classe; non “società”, ma assemblea e invece del termine “cittadino”, utilizzare secondo ogni caso specifico mercante o borghese.

Ma questa parte era stata scritta con una grafia molto minuta e fitta, in fondo pagina, del decreto n. 940, che stava appeso sul muro, proprio davanti agli occhi dello scrivano e quindi non l’aveva letto, invece i termini «osservare» e tutto il resto aveva imparato sin dal primo giorno, fissandolo bene in mente.

Tuttavia nella relazione preparata per la firma al comandante del reggimento, e che in seguito doveva essere consegnata per la visione al barone Arakčeev, c’era scritto:

Su incarico di Sua Eccellenza, di osservare personalmente la formazione dei distaccamenti delle sentinelle, atti al servizio di pattuglia mobile a San Pietroburgo e dintorni, ho l’onore di rapportare che il suddetto incarico è stato eseguito

E non è ancora tutto.


Paolo I di Russia

La prima riga del rapporto che aveva trascritto proprio lui poco fa, aveva questa forma:

Sua Eccellenza Egregio Signore.

Persino uno scolaro delle elementari è a conoscenza che rivolgersi a qualcuno scrivendo in una riga sola, assume la forma di una disposizione; invece, nelle relazioni di un subordinato, soprattutto rivolgendosi ad una personalità, quale era il barone Arakčeev, si doveva obbligatoriamente scrivere in due righe:

Sua Eccellenza

            Egregio Signore

Ciò esprimeva l’assoggettamento e la cortesia.

E se per una mancanza tipo osservare ecc… esistevano le premesse per le attenuanti della colpa, in quanto era uno scrivano novello assunto da poco che non si era accorto e avrebbe potuto non notarlo in tempo…; nell’appellativo Egregio Signore l’errore era tutto suo e di nessun altro.

Quindi, non rendendosi più conto di quello che stava facendo, lo scrivano si precipitò a correggere proprio questa carta e nel ricopiarla, si dimenticò all’istante dell’ordinanza, nonostante proprio quella avesse una precedenza assoluta.

Per questo, quando dall’aiutante in campo arrivò un soldato d’ordinanza a ritirarla, lo scrivano guardò l’orologio, il soldato d’ordinanza, e all’improvviso gli allungò il foglio trascritto erroneamente con il nome del defunto tenente Sinjuchaev ed un inesistente sottotenente Kižé.

Poi si sedette e, tremando ancora, proseguì a scrivere: …Eccellenza, di esaminare personalmente la formazione dei detashement delle guardie…

3

Alle nove in punto alla reggia si sentì squillar il campanello; l’imperatore diede uno strappo al capo del cordone. L’aiutante di Sua Maestà alle nove in punto entrò per il consueto rapporto da Pavel Petrovič. L’imperatore stava seduto nella stessa posizione del giorno prima, vicino alla finestra, circondato dal paravento di vetro.

Frattanto non dormiva, né sonnecchiava e l’espressione della sua faccia era anche assai diversa.

L’aiutante sapeva, come del resto tutti quanti nel palazzo, che l’imperatore adesso era arrabbiato. Sapeva anche che la collera cerca delle ragioni e, più ne trova, più s’infiamma. Dunque, il rapporto in nessun caso poteva essere evitato.

Si mise sull’attenti davanti al paravento di vetro e la schiena dell’imperatore, e fece rapporto di presenza.

Pavel Petrovič non si voltò neppure verso l’aiutante. Il suo respiro era pesante e rarefatto.

Per tutta la giornata di ieri non si era riusciti venire a capo di chi fosse a gridare sotto la sua finestra: «Guardie!»; e di notte lui si era svegliato due volte in preda ad un’angoscia.

«Guardie!» – era stato un grido assurdo e dapprima l’ira di Pavel Petrovič era un’ira piccola, come di chi sta sognando un brutto sogno e gli abbiano impedito di sognarlo sino in fondo. Infatti, un positivo finale del sogno comunque determina una buona sorte. Dopo, gli nacque la curiosità: chi e perché aveva gridato: «Guardie!», davanti alla sua finestra? Ma quando in tutta la reggia agitata e smossa dalla gran paura, non si riuscì a trovare chi fosse stato, l’ira divenne grande. L’intera faccenda appariva così: nel cuore della reggia, durante un riposo pomeridiano dell’imperatore, un uomo poteva recare disturbo e rimanere introvabile. Oltre tutto nessuno poteva sapere con quale intenzione si era urlato: «Guardie!». Potrebbe anche darsi che fosse stato un avvertimento di un malintenzionato pentito. O, forse, lì, tra i cespugli, rovistati oramai tre volte, avevano infilato un bavaglio sordo in gola ad un uomo e lo avevano strangolato. L’unica cosa certa era che era sparito e se n’era persa ogni traccia. Occorreva… Ma cosa occorreva, se quell’uomo non era stato trovato.

Occorreva aumentare le guardie. E non soltanto qui.  

Pavel Petrovič, senza voltarsi, fissava con lo sguardo i verdi cespugli quadrangolari, quasi identici a quelli del Trianon. Potati sì, per essere bassi, tuttavia non si sapeva bene chi e che cosa potevano celare.

E, non degnando neppure di uno sguardo l’aiutante, girò bruscamente indietro la mano destra. L’aiutante sapeva bene di cosa si trattasse: l’imperatore non si voltava mai nei momenti di grande ira. Perciò gli mise con destrezza nella mano un’ordinanza dei reparti di guardia del reggimento Preobraženskij, Pavel Petrovič prese a leggerla attentamente. Poi la mano si girò indietro nuovamente e l’aiutante, con un’abile mossa, senza il minimo rumore, alzò dal piccolo scrittoio una penna, la intinse nel calamaio, la scrollò leggermente e la posò agilmente in quella mano tesa, imbrattando con l’inchiostro soltanto se stesso. Il tutto gli riuscì in un attimo. Da lì a poco il foglio firmato finì gettato al volo addosso all’aiutante. Così l’aiutante proseguì a consegnare i fogli ed i fogli firmati o soltanto letti volavano, l’uno dietro all’altro, addosso all’aiutante, che cominciò ad abituarsi a questa cosa, nutrendo oramai la speranza che con questo sfogo si sarebbe risolta l’intera vicenda, quando l’imperatore all’improvviso saltò giù dal piedistallo della sua alta poltrona.

Correndo a passettini, si avvicinò all’aiutante in modo rasente e lo annusò. L’imperatore agiva in questa maniera ogni volta che gli capitava d’essere diffidente. Poi prese l’aiutante con due dita per un braccio e gli diede un forte pizzicotto.

L’aiutante con i fogli in mano rimase dritto sull’attenti.

«Non conosci bene il servizio, signor aiutante!» – disse l’imperatore Pavel raucamente. «Perché t’avvicini da dietro, aggirandomi.»

E lo pizzicò un’altra volta.

«Mando all’altro mondo chiunque di voi celi lo spirito liberale di Potemkin. Vattene».

Retrocedendo di schiena, l’aiutante si ritirò fuori della porta.

Non appena la porta si chiuse pianissimo, Pavel Petrovič velocemente si tolse dal collo un fazzoletto attorcigliato e cominciò lentamente a strapparsi la camicia sul petto, la sua bocca si storse e tremarono le labbra.

E’ iniziata un’ira immensa.

(continua)

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

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