Tralasciando tutte le dispute che inquadrano Viziinós nella corrente ‘veristica’ di matrice ellenica (la cosiddetta “itografia”, che corrisponde al balzachiano étude des moeurs) e/o nel filone degli studi folkloristici dedicati ai costumi traci (su cui dà ampio resoconto l’introduzione al volume), oppure sull’ accostamento del suo stile narrativo a quello di Maupassant, vogliamo qui dare una breve informazione sui racconti tradotti (non gli unici da lui scritti), proponendo qualche brano che ne illustri le qualità narrative.
Un denominatore comune a tutti e tre i racconti è lo sfondo ambientale, costituito dalla Tracia orientale, terra d’origine dell’Autore.
Ne La colpa di mia madre la protagonista è la madre dell’io narrante (trasparentemente la madre dell’Autore e l’Autore stesso) che dedica tutte le sue attenzioni ad una figlia malaticcia chiamata Annió. L’attenzione è tale che ella trascura quasi gli altri tre figli, i quali però non nutrono sentimenti ostili verso la sorellina. La madre tenta tutte le strade per guarire la figlia, sino ad accettare una pratica religiosa che consiste nel far trascorrere alla bambina quaranta giorni e quaranta notti in una chiesa per ‘liberarla’ dai demoni che si crede la posseggano. In questo soggiorno è coinvolto anche l’Autore che ne ricava una esperienza traumatica, accentuata dal fatto che egli sente di nascosto la madre che prega Dio di prendersi tutti i figli, purché guarisca la figlia. La pratica religiosa non sortisce alcun effetto, sicché la bambina viene riportata a casa, dove muore. Ed ecco come l’Autore descrive questi momenti:
“Dopo alcuni momenti di profondo silenzio, (la madre) mandò di nuovo incenso sugli oggetti di fronte a noi e pose tutta la sua attenzione sull’acqua che si trovava nell’ampio vaso posto sullo sgabello.
All’improvviso una minuscola farfalla, volando in cerchio su di esso, si accostò con le ali e smosse leggermente la sua superficie.
Mia madre s’inchinò piamente e fece il segno della croce come quando passa il Santissimo in chiesa.
«Fatti il segno della croce, figlio mio!», sussurrò, profondamente scossa e non osando sollevare gli occhi.
Io obbedii meccanicamente.
Quando quella piccola farfalla scomparve nel fondo della stanza, mia madre sospirò, si sollevò allegra e contenta e disse: «È passata l’anima di tuo padre», seguendo ancora il volo della farfallina con occhi pieni di affetto e di adorazione. Poi bevve dall’acqua e ne diede anche a me da bere.
Mi venne allora in mente che anche in altre circostanze ci aveva fatto bere dallo stesso vaso, appena svegli. E ricordai che ogni volta che faceva questo, mia madre era per tutta quella giornata vivace e contenta come se le fosse capitata qualche grande fortuna, per quanto misteriosa.
Dopo che mi ebbe fatto bere, si accostò al letto di Annió con il vaso tra le mani.
La malata non dormiva, ma non era neppure del tutto sveglia. Le sue palpebre erano dischiuse: i suoi occhi, per quel che si vedeva, emettevano uno strano chiarore fra le sue fitte ciglia nere.
Mia madre sollevò con cautela il gracile corpo della bambina, e mentre con una mano sosteneva la sua spalla, con l’altra tese il vaso verso le sue labbra secche.
«Dài, amore mio», le disse, «bevi da quest’acqua, ché guarisci.»
La malata non aprì gli occhi, ma pare che sentisse la voce e comprendesse le parole. Un sorriso dolce e pieno di simpatia dischiuse le sue labbra. Poi sorseggiò qualche goccia di quell’acqua che avrebbe dovuto concretamente curarla. Perché, appena bevve e aprì gli occhi e cercò di respirare, un leggero sospiro sfuggì dalle sue labbra e lei ricadde pesantemente sul braccio di mia madre.
La povera nostra Annió…era fuggita via dalle sue sofferenze!”.
Dopo la morte di Annió la madre adotta un’altra bambina, che ella cresce con gli altri figli portandola sino al matrimonio, e, dopo che questa è uscita di casa, ne adotta ancora un’altra piccolina. Alle rimostranze dei figli, la madre spiega che questo suo atteggiamento è dovuto ad un antico senso di colpa che ella sente per avere, forse, ucciso inavvertitamente la sua prima figlia Annió schiacciandola mentre dormiva con lei nel letto. Senso di colpa che non l’abbandona nemmeno dopo il colloquio, favorito dall’Autore, con un prelato della chiesa ortodossa.
Nel secondo racconto, L’unico viaggio della sua vita, il protagonista è un ragazzo che si reca a Costantinopoli per apprendere il mestiere di sarto (e anche non è difficile intravvedere l’Autore). Egli porta con sé un patrimonio di miti e leggende che gli sono stati raccontati dal nonno: la storia delle principesse che si innamorano degli apprendisti sarti e poi costringono il loro genitore ad acconsentire al matrimonio, quella della terra dove vivono gli uomini dalla testa di cane, quella dell’ombelico del mare dove spunta la Gorgona, la madre di Alessandro, che chiede al capitano della nave che si trova a passare se Alessandro ancora vive e in base alla risposta ricevuta lascia andare o affonda la nave, e quella del paese in cui vi sono gli uomini trasformati in marmo da una maga che effettua la loro metamorfosi a suo piacimento. Egli crede fermamente in queste storie che egli crede che il nonno abbia appreso nel corso dei suoi numerosi viaggi. Il ragazzo prova una prima disillusione quando vede che le principesse dell’harem, per le quali la sua sartoria cuce gli abiti, non si innamorano di lui, che va ogni tanto a consegnarli. Un giorno giunge dalla sua città un servo che sollecita il suo ritorno a casa perché il nonno sta per morire. Egli dubita che il rude sarto presso cui lavora gli concederà il permesso. Ed ecco come descrive la situazione:
“Il maestro, dal momento in cui Thimios (il servo giunto da casa) era entrato nella nostra stanza, aveva lasciato rumorosamente le sue forbici sul tavolo da lavoro e, sollevate le sue grandi lenti al di sopra degli occhi, sulla fronte rugosa, poggiò con aria di sfida le mani sulle sue gambe e si mise a lanciare sguardi estremamente minacciosi su chi aveva osato irrompere in quel modo nel suo regno tirannico senza alcuna formalità. I miei condiscepoli erano tutti scossi, ma nessuno osò muoversi o sollevare la testa. Tutti questi erano cattivi presagi: certamente non mi avrebbe lasciato partire.
«Suo nonno lotta con l’angelo della morte!», disse a questo punto Thimios rivolto a lui, ingrugnendo ancora di più il suo volto chino. «Suo nonno sta per lasciarci e ha chiesto di vedere il ragazzo. Sai, è la sua ultima volontà.»
ll maestro, la cui ira sembrava avesse raggiunto il culmine, schiudeva già le labbra che si muovevano spasmodicamente per imprecare, come era solito fare nelle sue violente esplosioni di collera. Ma l’ultima frase di Thimios, pronunciata con una sorte di misteriosa pietà e un tono di voce alterato, agì come un incantesimo su quel duro vecchio disumano. Il suo volto infiammato si placò immediatamente, il suo atteggiamento aggressivo cadde all’istante e con una bontà che per la prima volta vedevo in lui, tese verso di me la sua mano perché la baciassi. Era il permesso per la mia partenza.”
Ritornato a casa, il ragazzo scopre che in realtà il nonno è ancora in vita e lo incontra in una località vicina dove il vecchio si è rifugiato per stare da solo. Nel corso della lunga conversazione, che egli ha con il nonno, scopre che questi non ha mai effettuato un viaggio in vita sua, perché, tutte le volte che stava per partire per una località, la moglie lo ha costretto, per qualche ragione, a rimanere in casa ed ha viaggiato al posto suo. Il nonno rivela che tutte le storie che ha raccontato al ragazzo gli sono state in realtà raccontate da sua nonna. Nella notte successiva al colloquio col ragazzo il nonno muore effettivamente sicché quello della morte è l’unico viaggio che gli compie, come recita il titolo del racconto.
Il terzo racconto, Moskóv Selím, è la storia di un turco, Selím,che deve il soprannome di Moskóv al suo atteggiamento filorusso, piuttosto inconsueto per un turco. Selím, piuttosto anziano, vive in una casupola isolata ed è tenuto lontano da tutti proprio per le sue inclinazioni. L’Autore lo incontra per caso durate la sosta ad una fonte, nei pressi della quale vi è la casupola del vecchio, ne rimane colpito e ritorna il giorno dopo per parlare con lui. Il vecchio lo accoglie ospitalmente, ed ecco il breve resoconto dell’incontro:
“Selím, mentre parlava, staccò dalla bassa tettoia della casa un cestino pieno di frutti maturi e me lo offrì su un minuscolo sgabello. Poi andò a preparare il caffè e a prendere il latte. Le allodole gareggiavano tra loro, scalando poco a poco l’atmosfera profumata. Il mormorio dei getti gorgoglianti della fonte giungeva con una piacevole eco fino a me: sui rami del faggio, la tortora, unica rimasta esclusa dalla pastura mattutina, piangeva la sua solitudine. Una luce gaia che veniva da oriente, indorava le cime delle colline a sinistra e si versava sui ruscelli risvegliatisi come il sorriso mattutino sulle labbra di una bella ragazza.”
Nel corso del colloquio l’Autore viene a conoscere la storia, piuttosto complicata, di Selím. Questi appartiene ad una famiglia benestante, ligia ai valori militari professati dalle élites turche. Il padre nutre molta fiducia nell’altro figlio, Hassan, ma questi, quando deve arruolarsi per una guerra, si dà alla fuga. Selím, per evitare al padre l’onta della diserzione, si sostituisce al fratello e parte in guerra al suo posto. Ma la mossa non è gradita dal padre il quale, nella sua intransigenza, denuncia la diserzione del figlio, che muore nel corso del tentativo, fatto dai soldati, di arrestarlo. Selím conosce questi fatti solo molto tempo dopo, quando ritorna dalle campagne legate alla guerra di Crimea, e trova la sua casa profondamente sconvolta: la madre morta ed il padre decaduto moralmente e psicologicamente e ridottosi a fumare ed a trascorrere nell’inattività i suoi giorni. Attraversando vicende personali piuttosto intricate, Selím riparte più volte per partecipare alle diverse guerre che scoppiano nei Balcani in quel periodo finché, rimasto ferito, non viene raccolto dalle truppe russe che, contrariamente alle sue aspettative, lo curano e lo trattano con umanità anche nella successiva prigionia che egli trascorre in Russia. Quest’atteggiamento dei tradizionali nemici fa nascere in lui un sentimento di riconoscenza che egli manifesta apertamente al suo ritorno in Turchia e gli fa attribuire il nomignolo con cui è noto. Ma questa sua disposizione psicologica provoca dentro di lui un conflitto con il nazionalismo tipico del popolo turco. Sicché alla notizia che i Russi stanno per arrivare, subisce una emozione che gli provoca una emiplegia. Ma lo scrupolo di tradire il suo popolo gli provoca una sofferenza, che viene risolta da una pietosa bugia secondo cui la notizia dell’arrivo dei russi è falsa. Così “un secondo attacco della malattia pose fine alle sofferenze del vecchio soldato. E… il turco era rimasto turco!”.
Ovviamente, il breve riassunto dei racconti, che è stato proposto, dà solo una pallida idea della ricchezza dei motivi che permeano il racconto ed i brani citati vogliono illustrare sommariamente la fluidità narrativa di Viziinós, la sua capacità di mescolare inavvertitamente realtà oggettiva e atteggiamento soggettivo, la sua abilità nel creare atmosfere magiche dei luoghi (quasi un’anticipazione del realismo magico dei narratori sudamericani), la perizia nel tratteggiare tipi psicologici a partire dalle loro manifestazioni fisiche, la delicatezza con cui racconta situazioni potenzialmente tragiche. Tutte doti che fanno di Viziinós (nonostante la limitatezza della produzione letteraria) un narratore degno della migliore tradizione europea.