Il teatro di Lorca tradotto da Vittorio Bodini

In effetti, è proprio negli anni Quaranta, ancora in pieno conflitto mondiale, che in Italia si diffonde il nome e l’opera di Lorca e mentre per l’opera poetica determinanti furono le traduzioni di Carlo Bo (Poesie, Guanda, 1940) e Oreste Macrì (Prime poesie e canti gitani, Guanda, 1941; poi Canti gitani e andalusi, 1948), per quanto riguarda il teatro, in quegli anni uscirono soltanto traduzioni di singole opere. Citiamo, ad esempio, Nozze di sangue, tradotta da Elio Vittorini (1942), Yerma, dallo stesso Carlo Bo (1944), Mariana Pineda (1942) e Donna Rosita nubile (1943), ad opera di Albertina Baldo, moglie di Macrì il quale scrisse l’introduzione. Mancava cioè un’edizione integrale del teatro come era stato fatto per la poesia. Ma sulla fortuna di Lorca in Italia rinvio a un saggio (Fortuna literaria de García Lorca en Italia, in «Insula», 1986, n.478) di Gabriele Morelli che a Lorca ha dedicato anche una monografia fondamentale per lo studio del poeta (García Lorca, Roma, Salerno editrice, 2017) .

Anche durante la sua prima permanenza spagnola (novembre 1946 – aprile 1949) Lorca costituisce per Bodini una sorta di guida per  conoscere meglio il paese visitato, la realtà più profonda e segreta della Spagna,  la «Spagna nera», come lui stesso scrive nell’articolo su Lazarillo de Tormes, riprendendo proprio un’espressione di Lorca. Il poeta spagnolo  gli insegna a scavare  nell’ «inconscio collettivo» del popolo iberico, a cogliere le «radici della terra e del sangue», partendo proprio dalle manifestazioni più tipiche del folclore nazionale.

Così facendo riesce a scoprire anche le numerose affinità che legano il popolo spagnolo a quello meridionale e salentino in particolare. Su questo aspetto rimando al Corriere spagnolo, da me curato (Nardò, Besa, 20132), che contiene anche una prosa dedicata proprio a Lorca, Amici e nemici per il poeta andaluso, Qui Bodini difende vivacemente il poeta, rivendicandone la grandezza nei confronti di certi detrattori spagnoli descritti ironicamente:

Si meravigliavano dunque, e mi domandavano conto, della sproporzionata fortuna toccata in Europa alla poesia di Lorca.

― Che cosa ci abbiate trovato in Lorca non si riesce a capire. Il folclore andaluso! È possibile che una critica così scaltrita come pretende di essere quella europea di oggi si sia lasciata incantare da un fatto talmente grossolano?

Faceva rabbia che fosse proprio un andaluso a parlare così. Era un giovanottino dai baffetti sottilissimi e untuosi, da topino caduto nell’olio.

― Lorca  ― risposi ― è come Manolete, che soggiogava il suo toro al punto da potergli accarezzare le corna e voltargli le spalle e fare con esso tutti i giochi che gli piacesse. Il toro di Lorca è l’Europa. E mentre noi vaghiamo ciechi nell’interno delle nostre stesse midolla, il sangue, e gli oggetti dei suoi canti erano cose terribilmente serie e assolute. No, non è l’Andalusia, è la coscienza che l’Europa s’è ormai ridotta a quell’ultimo dimenticato baluardo; sono tutte le regioni d’Europa che gridano vendetta nell’Andalusia di Lorca. […]

― È tutta una montatura politica ― saltò su un altro poeta. ― È uno sfruttamento che l’antifascismo ha organizzato sulla morte di Lorca. Se l’avessero ammazzato i rossi nessuno si sognerebbe di considerarlo fra i più grandi poeti contemporanei.

― Fra voi e quelli che l’hanno ucciso ― diss’io ―  c’è solo una differenza, ed è che quelli almeno non scrivevano sonetti.

Ma passiamo al 1952, un anno fondamentale per Bodini e per la conoscenza di Lorca in Italia. Quell’anno infatti vedono la luce la prima raccolta di versi del poeta leccese, La luna dei Borboni, con le Edizioni della Meridiana di Milano, e appunto la traduzione del Teatro di Lorca presso l’editore Einaudi nella collana più prestigiosa dei grandi classici, “I millenni”. Questo volume conteneva tutte le opere teatrali dello scrittore spagnolo allora conosciute  (non solo le più note, da Nozze di sangue, di cui quest’anno ricorre il novantesimo anniversario,  a Yerma  a La casa di Bernarda Alba, quelle che sono considerate i vertici del suo teatro, la famosa “trilogia rurale” lorchiana, ma anche le opere minori). Ma egli ovviamente non ci dà solo una splendida e ancora adesso insuperata traduzione, ci dà anche, con le pagine introduttive, un’acuta interpretazione, più da poeta che da critico, della figura di Lorca e, in particolare, della sua opera teatrale.

Quali sono allora i punti principali della sua interpretazione? Cercherò di sintetizzarli brevemente. All’inizio Bodini si sofferma su un episodio della biografia del poeta, quello della morte, su cui poi egli, come s’è detto, ritornerà quasi ossessivamente  in altri suoi scritti, perché riteneva questo episodio un controsenso, un’assurdità più di quanto non lo sia normalmente per un essere umano morto giovane, in quanto, come egli scrive, Lorca «era la vita stessa». Vorrei leggere questo significativo brano in cui si nota la spiccata sensibilità poetica dell’autore:

Due curiose notizie si riferiscono al principio e alla fine della parabola umana di Federico García Lorca. Scrive Guillermo de Torre, il critico alle cui amorevoli cure dobbiamo l’edizione completa delle opere lorchiane, che per una strana civetteria il poeta non volle mai confessare il proprio anno di nascita, che i critici hanno dovuto far cadere per supposizione fra gli anni 1898 e 1899. L’altra testimonianza, da noi raccolta, riguarda la morte del poeta: quando lo tolsero dalla casa d’un amico dove pensava d’essere al sicuro, e lo portavano a fucilarlo nel paesino di Viznar, sotto Granada, per tutto il cammino lloraba como un niño, piangeva come un bambino. Chi lo dice, lo fa abbassando la voce, perché per uno spagnolo è la più grande vergogna. […]            La prima di queste due circostanze ci dice l’avversione del poeta a storicizzarsi, a offrire un punto di partenza per il consumo di quel bene, della cui privazione un giorno egli avrebbe pianto como un niño. Per non dover morire, non voleva egli ammettere neanche d’essere nato, il tal giorno il tal anno. La sua presenza aderiva alla vita in modo così pienamente meraviglioso che egli era la vita stessa nel suo infinito presente. Tutta la sua poesia era una dichiarazione obiettiva dell’essere, che la mancanza di sforzo rendeva estremamente gioconda: bastava che dicesse luna e la luna esisteva, che dicesse coltello, e un coltello brillava, che dicesse stella, cavallo, fiore… Questo pensiero sorridente del mondo e dei suoi movimenti e colori, da cui scaturiva una perenne creazione, altro non era che un riscatto dalla morte che abita negli esseri e nelle cose.

Poi passava all’esame dell’attività teatrale di Lorca, che Bodini riteneva l’attività   predominante, anche rispetto a quella  poetica, perché occupa un ampio arco di tempo nella vita dello scrittore che va dalla sua prima giovinezza a poco più di un mese dalla  morte. Mentre infatti il suo primo lavoro, Il maleficio della farfalla, risale al 1920, l’ultimo, La casa di Bernarda Alba, venne terminato il 29 giugno 1936, qualche mese prima della tragica fine di Lorca (il 19 agosto di quell’anno).

Ma non è solo la composizione delle opere teatrali che lo impegnò durante la sua vita bensì anche l’attività promozionale e di diffusione del teatro che Lorca svolse come attore e regista. E qui Bodini cita tre iniziative famose: la Barraca, una compagnia teatrale di amici e studenti universitari che giravano i villaggi più sperduti per recitare i capolavori del Siglo de Oro spagnolo; un teatro da camera per cui Lorca scrisse due farse; la Tarumba, un teatrino di marionette per cui fece diversi adattamenti e improvvisazioni.

Un altro punto importante dell’interpretazione bodiniana è l’origine popolare del teatro di Lorca. «Dice il poeta nel prologo di una sua opera – scrive Bodini – di avere interpretato e raccolto quella farsa dalle labbra del popolo: los labios populares».  E qui Lorca si riferisce all’ambiente andaluso e popolare di gitani e contadini che costituiva anche  il suo pubblico. E infatti questa osservazione si può estendere a tutto il suo teatro.

Ma subito dopo Bodini sostiene che proprio in quelle opere ambientate tra i gitani e i contadini andalusi Lorca «raggiunge alti vertici di tragedia, ridando vita   ‒ ecco un’altra osservazione illuminante ‒  al grande teatro mediterraneo senza tempo che a distanza di secoli risorge all’altro capo del medesimo mare, più colorato e fervido di sensi, ma col medesimo sentimento tragico del fato e della natura nel lampeggiare del sole mediterraneo sul bianco delle case e lo sterpo arso. Salvo che ormai – continua Bodini ‒  la carica tragica non sarà più fatale prerogativa di semidei o di re (come nella tragedia greca a cui allude), ma verrà estesa e riconosciuta alle umili creature del popolo, con una sorta di democrazia del cuore umano che ben s’accorda con l’indole del popolo spagnolo».

Successivamente Bodini sintetizzava il tema principale delle maggiori opere teatrali di Lorca, la sua trilogia “rurale” appunto, come è stata definita: «l’adulterio in Nozze di sangue, la sterilità in Yerma, la furiosa mancanza del maschio nella Casa di Bernarda Alba». Ma non bisogna credere però – sostiene Bodini ‒  che Lorca si fermi a questo «ingenuo problemismo domestico», cioè a questi comuni problemi di tipo familiare, perché (ecco un’altra illuminante osservazione) «dietro la società visibile e i suoi ordini vi è quest’altra legge, non più forte, ma più temeraria e feroce, che è il sangue».

L’edizione del 1952 ebbe successive ristampe e nel  1968 uscì una nuova edizione ampliata con l’aggiunta di tre opere in più che Bodini aveva tradotto, come spiega nell’Avvertenza alla Quarta edizione, sulla base di una nuova edizione spagnola, curata da Arturo del Hoyo, accresciuta rispetto alla precedente di Guillermo de Torre. Nel risvolto della sovraccoperta, anonimo ma sicuramente dovuto a qualche illustre collaboratore di Einaudi, si riconoscevano apertamente i meriti del traduttore: «In questi brani – è scritto ‒ rifulge in tutta la sensibilità poetica la versione di Vittorio Bodini cui si deve se il testo italiano conserva la musicale dolcezza e la violenza popolare dell’originale».

Resta da dire che dagli anni Cinquanta in poi per tutte le rappresentazioni delle opere teatrali di Lorca sono state sempre utilizzate le traduzioni di Bodini che in tal modo contribuì a diffonderle e renderle popolari in Italia. I maggiori registi e le maggiori compagnie teatrali italiane misero in scena i drammi lorchiani. Memorabile, ad esempio, fu l’allestimento che nel 1955 al Piccolo  Teatro di Milano Giorgio Strehler fece dell’ultima opera lorchiana, La casa di Bernarda Alba, giudicato dalla critica uno degli spettacoli più belli e rigorosi di quegli anni. Nel ruolo di Bernarda recitava Sarah Ferrati, una grande attrice del teatro italiano. Tra le numerose recensioni che uscirono su questo spettacolo ve ne fu una del poeta Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel, il quale sottolineava che «il regista Giorgio Strehler si è servito della traduzione di Vittorio Bodini (uno scrittore che conosce il corpo e la forza delle parole)». Anche qui insomma si mettevano nel giusto rilievo i meriti del traduttore che non poco peso ebbe quindi nella diffusione e nell’affermazione del teatro di Lorca in Italia.

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