Quel tempo e quello spazio che viviamo domandano un pensare e un agire che possano recuperare i sensi essenziali, che possano rifondare i valori dell’umano soggettivo e collettivo. La memoria è un senso essenziale, un valore dell’umano. Allora si ha necessità di una continuità della memoria. Quando si dice continuità della memoria si vuole intendere anche (o forse soprattutto) il riconoscimento di un vincolo sentimentale e razionale con una cultura che si è sviluppata con un costante processo di integrazione e interazione dei suoi significanti e dei suoi significati, con un innesto di concetti. Senza una continuità della memoria, nel vuoto aperto dalla discontinuità si insinua un senso di estraneità che si porta dietro lo sradicamento da qualsiasi terreno culturale e l’abbandono all’estemporaneità e all’inconsistenza del conoscere.
Ma da decenni, ormai, si verificano condizioni culturali che producono una perdita o un deperimento della memoria, per cui non si sa su cosa sia fondato quello che si conosce, da quale intelligenza ed esperienza precedenti derivi, da quali forme del sapere provenga, quale sia il nucleo semantico che lo ha generato. Si ha l’impressione che si privilegi un sapere che abbia a che fare soltanto con l’immediato, che sia limitato al contingente, che sia costituito dai pochi zecchini di informazione che ci si ritrova nella tasca . Ma questo non è il sapere; è un’altra cosa che non saprei dire come si chiama. Questo significa che la conoscenza di qualcosa da parte di qualcuno è sospesa nel vuoto, non ha struttura né conformazione, non può avere connessioni, relazioni, nessi.
Intorno a noi esistono e si sviluppano rapidamente modelli e strumenti che ci illudono di poter fare a meno della memoria nel processo di costruzione del sapere.
La svalutazione della memoria produce una precarietà della conoscenza, una sua pressoché immediata deperibilità, uno sfilacciamento, una instabilità, una provvisorietà e quindi una difficoltà di applicazione e di trasferibilità in situazioni diverse. La conoscenza si carica di senso se può riprodursi, rigenerarsi, se può combinarsi con altre conoscenze, se si fa esperienza alla quale riferirsi e nella quale riconoscersi.
Una civiltà senza memoria è superficiale: manca di quella combinazione di concetti e di significati che consente di comprenderne la Storia, le cause delle situazioni in cui si trova, degli effetti che quelle situazioni possono produrre, dei rimedi da adottare per risolverle.
Una civiltà senza memoria si ritrova a dover improvvisare giorno dopo giorno i modi per far fronte ai problemi che le si pongono da ogni parte. Ma le soluzioni improvvisate non sono mai durature, per cui poi i problemi si ripresentano con l’ulteriore peso delle mancate o inadeguate soluzioni, e accerchiano, e pongono l’assedio.
Allora si rivela necessario – indispensabile- una sostanziale rivalutazione culturale della memoria. Talvolta, oltre che guardarsi intorno, è necessario saper guardare indietro. Ogni progresso di cui il presente trae vantaggio, deriva dal passato. Sempre. Perché questo possa accadere occorre una nuova sensibilità nei confronti della Storia, una nuova e forse più profonda consapevolezza della funzione essenziale che la memoria assume per un uomo e per un popolo. Senza memoria, per ogni cosa da fare si deve ricominciare sempre daccapo, e quando si ricomincia ogni volta daccapo non c’è sviluppo, non c’è progresso, non c’è evoluzione.
Non ricordo più in quale libro una volta ho trovato questa frase: il popolo che non ha più memoria è destinato a morire di freddo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 13 agosto 2023]