Fёdor capiva che la stessa cosa sapeva pure l’altro compagno, di cognome Manolati, uno zigano di Bessarabia, olivastro scuro, quasi nero di pelle, con tutto il viso pieno di bianche cicatrici, ed anche il terzo, un calzolaio del villaggio Achtyrka, di cognome Kravčenko, che tutti loro chiamavano compagno Semën, uomo gracile con torace rientrato, ma con una voce sonora ed occhi lucidi lucidi, brillanti.
Quando tutti e tre furono arrestati in quel loro villaggio e li legarono con le mani dietro, l’unica breve domanda che posero loro, fu: «Bolscevichi?»
Loro, altrettanto brevemente, risposero: «Bolscevichi.»
Solo Manolati, allungando il collo, aggiunse maliziosamente: «Pazienza, cornutacci, pazienza!.. Lo vedrete, eccome, lo stesso: la ragione è dalla nostra parte!»
Dopo li condussero verso il pozzo dall’altissima gru e non c’erano attorno a loro né urli, né irritazione, né imprecazioni; c’era soltanto una fitta polvere, sollevata dagli stivaloni pesanti e c’era chi starnutiva, chi tossiva, chi scatarrava e sputava per terra nella polvere. Attraverso la polvere un po’ diradata, qua e là, si potevano scorgere alcune donne cosacche che stavano sugli usci della casa e dei bambini che si rincorrevano, giocando a nascondino.
Titkov, prima che li prendessero, qui, addirittura sul posto di lavoro, aveva mangiato nell’intervallo un’aringa salata e non aveva fatto in tempo a bere dell’acqua; poi li richiusero per tutta la notte in una baracca.
Stava sentendo una gran sete e la giornata era troppo calda, perciò, mentre s’avvicinava al pozzo, sentiva con tutto il suo sodo, gonfio corpo che veniva accompagnato proprio nel luogo giusto giusto e stava cercando, cercando con gli occhi una secchia d’acqua.
La secchia, grande come una bigoncia, con una catena bagnata, lucida d’acqua, stava appoggiata sulla mensola del pozzo e lui non riusciva a staccarne gli occhi.
S’avvicinarono, la grossa secchia era piena piena d’acqua, sino all’orlo: qualcuno l’aveva appena appena tirata fuori dal pozzo per abbeverare un cavallo, ma il cavallo, evidentemente, non aveva sete.
La sabbia nei pressi del pozzo era molto bagnata e tutt’attorno si sprigionava l’odore acre dei buoi. Un tafano si era posato sulla sua guancia sinistra e Titkov, strofinandola con la spalla sinistra, era riuscito a scacciarlo ed intanto non staccava gli occhi dalla secchia d’acqua e, quando si fermarono, disse, non supplicando, certo, ma semplicemente e chiaramente: «Gente, fatemi bere!»
A ciò un cosacco vicino, con la barba rossa, le venuzze blu sul naso e le ciocche di capelli bagnati di sudore che gli uscivano da sotto il berretto a visiera, rispose, non meno semplicemente e chiaramente:
«Ora berrai!» – e gli diede un forte duro pugno sulla stessa guancia, dalla quale aveva appena scacciato il tafano.
Nello stesso istante Titkov vide il compagno Semën, gettato violentemente a terra che, mentre cadeva, scalciò con entrambe le gambe contro il suo piede e, chissà perché, gli balenò negli occhi la testa nera di Manolati, balenò come se fosse più alta di tutte le altre, come se la testa gli volasse via all’improvviso; ma non appena si accorse di questo, qualcosa lo colpì fortemente alla nuca da dietro, da costringerlo ad accovacciarsi sui ginocchi e a mormorare distintamente: «Ci stanno uccidendo, compagni… è la fine!»
Con ciò si tirò la testa dentro spalle, la cacciò lì, per nascondersi, come una tartaruga gigante e si allungò sulla sabbia, distendendo le gambe. Si mise sdraiato bocconi e la sabbia, su cui poggiò le sue labbra, era molto bagnata e con un forte odore d’orina di cavallo.
Cercò, a questo punto, di mettersi le mani sotto il corpo, ma le sue mani erano state strettamente legate dietro: provò con tutte le forze a liberarsi, strattonando forte le braccia nell’intento di strappare la corda, che, però, non cedette.
I cosacchi Bianchi li picchiavano decisi e silenziosi, respiravano con affanno, in modo assai serio e concentrato, come quando scannano dei maiali. Dapprima Titkov riusciva a distinguere le parti del suo corpo, dove le botte inferte facevano più male, ma poi il dolore divenne totale: arrivavano altre botte, sempre più insopportabili e acute, che facevano serrare i denti sempre più fortemente ed ingoiare saliva incessantemente.
Si sentì un tremendo, sonoro urlo del compagno Semën e poi la sua voce tacque del tutto. Fëdor pensò: «L’hanno ucciso, carogne!» – e cercò di far rientrare la sua testa ancor più nelle spalle. Solo Monolati aveva continuato a farsi sentire. Non smetteva di esclamare: «E’ dalla nostra… parte… la ragione! Lo vedrete, cornutacci! E’ dalla nostra! Eccome! Lo vedrete!»
Titkov fece in tempo a farsi passare per la mente un preciso pensiero su Monolati: «E’ certo, sarà uno assai abituato… Sarà stato malmenato non meno di un centinaio di volte!»
Qui gli arrivò una botta talmente forte sul braccio destro, che gli si offuscò la mente dal dolore e, un attimo dopo, gli arrivò un tale colpo in testa, che smise di sentire le esclamazioni di Monolati e tutto il resto.
Riprese i sensi per il gran freddo.
Tutto il corpo era bagnato fradicio, dalla testa ai piedi.
Non riuscì a ricordarsi subito che cosa gli era successo, ma la prima cosa che si ricordò era: il pozzo. Poi gli tornarono in mente i cosacchi Bianchi e le botte. Pensò: «Ci avranno buttato nel pozzo!». Ma subito si corresse: «E perché mai avrebbero dovuto rovinare il pozzo? Per darsi la briga di ripulirlo…»
E, schiudendo un occhio, che si trovava più in alto del suolo, vide, proprio davanti alla sua faccia, la punta bagnata e screpolata di uno stivalone rossiccio e, in quell’istante, distinse una replica, alquanto bonaria, di qualcuno: «Ma guarda te! Questo, accidenti che lo pigli, è ancora vivo!»
Ed un’altra voce: «E pure lo zingaro si muove!»
Riuscì appena a pensare che si trattava di uomini che avrebbero potuto aiutarli, quando la stessa screpolata punta dello stivalone rossiccio gli diede un forte calcio un po’ più in su dell’occhio.
Dovette nuovamente girare la testa con la faccia in giù nella sabbia e rientrare la testa dentro le spalle.
«E’… dalla nostra… parte!» – mormorò gli accanto lo zigano Manolati.
Ma in quel momento si misero a pestarlo coi piedi nei grossi stivaloni ferrati e sulla sua schiena salì qualcuno assai pesante e si mise a salticchiare.
Titkov strinse più che poteva la pancia, ma sentì come i tacchi ferrati gli strappavano e maciullavano la pelle e la carne delle braccia e delle mani… E poi un altro braccio, con l’osso ancora non frantumato, si spezzò, con scricchiolio, al di sopra del suo polso, sotto un tacco.
A Titkov venne voglia di darsi una leccata alle labbra bagnate, ma in quell’istante perse i sensi.
Gli gettarono addosso, un’altra volta, l’acqua gelida del pozzo. Riaprì nuovamente soltanto un occhio – l’altro si era del tutto gonfiato e le palpebre non si schiudevano per niente – e di nuovo vide l’immensa punta bagnata e screpolata dello stivalone rossiccio.
Il suo corpo straziato venne girato e messo supino. Una barba, simile a quella di suo padre, gli si chinò sopra e, proprio a questa barba, lui sussurrò con la voce fioca: «Ac-qua!»
Subito si sentirono alcune voci assordanti: «E’ vivo! Accidenti a lui, ma quanto è resistente! Lo zingaro è ormai crepato da tempo e questo invece è ancora vivo!»
Per alcuni istanti continuò a restar disteso, vedendo sopra di sé una fitta foresta di barbe chine, fissandoli, come se si trattasse di altri uomini, diversi da quelli che avevano fatto tutta questa fatica per ammazzarlo e sussurrò loro: «Fratelli, datemi dell’acqua da bere!»
Ma davanti al suo occhio si sollevò un lento pugno stanco e, con una brusca mossa, gli spaccò i denti.
Poi qualcuno domandò con stupore e, sembrerebbe, un po’ afflitto: «E dove avrà, quell’accidente, il fegato?»
Benché non cercasse Titkov di stringere più forte la pancia, la botta infertagli con il grande piede nello stivalone ferrato era stata tremenda.
Già cinque minuti dopo, tutti e tre i compagni stavano distesi, del tutto immobili, nei pressi del pozzo.
I cosacchi si lavarono, si scatarrarono, si soffiarono i nasi, così, come facevano ogni mattinata, appena alzati dal letto; alcuni di loro si bagnarono addirittura i capelli e li pettinarono col pettinino di ferro.
Le donne cosacche, coi bimbi in braccio, si avvicinarono per vedere. Il sole segnava il mezzogiorno, quasi. Arrivò davanti al pozzo un barroccio, su cui vennero caricarti tutti e tre i corpi, che si avviò dal villaggio per tre o quattro verste, in direzione di un burrone.
Due giovani cosacchi accompagnavano il barroccio a piedi, non sedendovisi sopra. Sulle spalle brillavano d’oro i loro fucili.
Senza un fucile in spalla ormai nessuno s’allontanava dal villaggio, neppure per quattro verste: i tempi erano torbidi, agitati – l’anno millenovecentodiciotto – nel pieno della guerra civile.
Nel momento che Titkov, gettato sul barroccio, come un sacco di patate, sopra i corpi straziati dei suoi compagni morti, aveva aperto un occhio, era stato quasi abbagliato, come dal sole, dal luccichio proprio di questi due fucili sulle schiene dei cosacchi, che stavano camminando vicino, ma appena un po’ più avanti.
I cosacchi ed i fucili, come si ricordò più tardi, aveva visto spesso anche prima; il luccichio, invece, insolito, irresistibile, doveva, probabilmente, essere oramai quello dell’altro mondo…
Tuttavia sentì subito un dolore fortissimo in tutto il corpo e tutto l’interno suo bruciava insopportabilmente.
Titkov riprese conoscenza nel momento esatto in cui i cavalli da tiro del barroccio si avvicinarono al burrone e mentre stava frugando ancora nella sua memoria per capire che cosa gli fosse accaduto e come mai sentisse tutto questo insopportabile dolore, sentì un cosacco dire all’altro: «In questo punto la riva del burrone è molto scoscesa… Voleranno da qui giù, come dei corvi.»
A ciò un’altra voce rispose: «Qui, certo, è proprio un posto giusto…»
Titkov non comprese il senso del discorso e quando, ancora bagnato fradicio, venne trascinato da quattro mani dal barroccio, accompagnato da imprecazioni, emise un lamento proveniente da tutto il suo lacero corpo e guardò il mondo col suo unico occhio; le quattro mani che lo tenevano, all’improvviso si afflosciarono superstiziosamente e lo fecero sbattere come un sacco a terra, costringendolo a gemere ancor più fortemente.
I cavalli si misero a sbuffare ed a dimenare le teste ed i due uomini con i fucili scartarono per una ventina di metri…
Titkov ascoltò e sentì che uno di loro, facendosi dapprima uscire dalla bocca una lunga parolaccia, aggiunse: «Ma quand’è che, brutta forza maligna, crepi?»
E, nel rivolgere lo sguardo da quella parte, vide che un cosacco afferrò il fucile, prese la mira e sparò…
Titkov oscillò un po’, persino da disteso, come se gli fosse entrato un grosso chiodo nel petto… E in quel momento sentì piantarglisi nel corpo un altro chiodo, solo un po’ più in alto: era stato un altro cosacco a scaricargli addosso una cartuccia del suo fucile.
La bocca di Titkov si aprì leggermente e riversò del sangue; un paio di volte sbatté la testa ed il corpo rimase immobile, silenzioso.
I cosacchi portarono sull’alto bordo scosceso del burrone il cadavere già indurito del compagno Semën, con il cranio fracassato e, prendendolo per le gambe e le braccia, facendolo oscillare, lo gettarono giù, rimanendo in silenzio. Il corpo dello zigano Manolati, con il collo rotto, cosicché la sua testa penzolava da una parte, i cosacchi gettarono giù, dicendo invece: «Lì, dove sei adesso, stia pure “la ragione dalla vostra parte”!»
Davanti al corpo immobile di Titkov, dopo averlo trascinato sul bordo del burrone, si fermarono: «E se questo, accidente, dovesse…» – iniziò un cosacco.
«…essere ancora vivo? Credi?» – finì la frase l’altro.
Sollevarono perfino la camicia bagnata di Titkov, per guardare i punti d’ingresso nel corpo dei proiettili. Ma, costatando che il corpo era tutto un immenso livido tumefatto e che entrambe le pallottole avevano trapassato la parte destra del petto, scossero soltanto i loro ciuffi sotto i berretti a visiera e spinsero insieme giù il corpo, accompagnandolo con lo sguardo, mentre scendeva a ruzzoloni, inciampando sul terreno scosceso; or con le gambe, or con la testa, finché non si distese finalmente sul fondo del burrone vicino agli altri due corpi.
Si era fatto oramai tardo pomeriggio. Il sole rotolò dietro il burrone: arrivarono l’ombra e frescura.
Tre donne contadine del vicino villaggio scesero nel burrone per raccogliere della legna. Lungo il fondo, qua e là, sulla superficie scoscesa, si alzavano dalla terra le lunghe verghe dei cespugli. Ogni anno venivano tagliate con ostinazione, ma ricrescevano di nuovo non meno ostinatamente. Le donne avevano con sé le falci e le corde.
In un primo momento, quando s’imbatterono nei tre cadaveri, si buttarono d’istinto per scappare, ma poi, guardandosi un po’ attorno, si fermarono; l’una spingendo l’altra, si avvicinarono nuovamente ai corpi.
Guardavano, scuotevano le teste e si avvicinavano perfino agli occhi gli angolini dei fazzoletti da testa.
«Non puzzano ancora?» – domandò una di loro, come se non credesse a se stessa.
«Si direbbe, che siano freschi» – tirò su col naso l’altra.
«Proprio ieri, mie care, sono passata qui e non c’era niente!» – sbatté le braccia la terza. «Ma che razza di scellerati li hanno ridotti in questo stato?»
I cadaveri debbono essere mansueti, distesi immobili, tranquilli. E’ una cosa tremenda, paurosa, quando un cadavere cerca di sollevare all’improvviso la testa. Fa venire un gran spavento!
E quando, aprendo appena appena un occhio, la testa di Titkov si girò, le povere contadine fecero ‘ah’, strillarono tutte e tre in coro e si diedero alla fuga, battendo i grossi piedi nudi sul fondo del burrone.
Passò appena qualche minuto, quando, l’una incoraggiando l’altra, si avvicinarono per la terza volta ai corpi e sentirono un sussurro: «Donne, care, datemi dell’acqua da bere…»
Una piccola sorgente d’acqua sgorgava dalla terra nel burrone a distanza di circa duecento passi più sotto, le contadine lo sapevano, ma non avevano con sé né una brocca, né nessun altro recipiente, avevano soltanto le falci e le corde…
Guardandosi attorno, le donne notarono sulla parete scoscesa del burrone un berretto a visiera insanguinato: era volato dalla testa del compagno Semёn Kravčenko, quando il suo corpo, dopo aver oscillato, era stato gettato giù da sopra. In questo berretto, sciacquandolo alla meglio, portarono a Titkov dell’acqua e, chinandosi tutte e tre insieme al di sopra di lui e tenendo il berretto coll’acqua in modo da aiutarlo a bere comodamente, guardavano sbalordite come stesse ingoiando avidamente quell’acqua.
Bevve tutta l’acqua che gli portarono, sospirò faticosamente ed il suo unico occhio sano cominciò a spostarsi attentamente da una donna all’altra.
«Ma che sorta di malfattori ti hanno ridotto così, poverello?» – cominciò a domandargli una delle donne, ma lui la interruppe con lo stesso sussurro che gli veniva dall’interno.
«Donne… care… non si potrebbe… ancora dell’acqua?»
Si era fatto quasi buio quando le tre donne riuscirono finalmente a portarlo fuori dal profondo burrone.
Tante volte si fermarono, esauste, chinandosi sull’uomo in stato d’incoscienza, l’una rimproverando l’altra: «Ohibò, a che pro stiamo disturbando questo povero uomo!.. Sarebbe morto durante la notte e con ciò avrebbe smesso di soffrire. E pure noi avremmo risparmiato l’inutile fatica…»
Tuttavia lo portarono su dal burrone, gli slegarono le braccia dalla corda e perfino lo trasportarono durante la notte all’ospedale di città, a dodici verste dal luogo di ritrovamento.
Mentre lo portavano in città, si rimproveravano a vicenda: sarebbe stato meglio non avvicinarglisi per niente, non portagli dell’acqua e non tirarlo fuori dal burrone, tanto, in ogni caso, non l’avrebbero portato in ospedale vivo, sarebbero rimaste sveglie per niente tutta la notte ed avrebbero inutilmente affaticato la giumenta.
L’unico vanto e soddisfazione, coi quali si consolavano le donne, era la loro improvvisa libertà di decisione, in quanto nei villaggi, in quei tempi, oramai erano rimasti pochissimi uomini a comandare e nelle case di loro tre non ce n’erano per niente: perciò se avevano deciso di portare quest’uomo sino all’ospedale, nessuno poteva impedirlo loro, ecco… E se dovesse morire, era sempre meglio che lo facesse nell’ospedale: sarebbe stato almeno seppellito dalla gente come si deve.
Alle domande su chi fosse quest’uomo e chi lo avesse ridotto in questo stato, le donne risposero all’ospedale: «E noi, come lo possiamo sapere?.. Così conciato lo abbiamo trovato dentro un burrone…»
«E a che scopo lo avete portato qua?» – dissero loro all’ospedale. «Ridotto così com’è, non vivrà di certo.»
«Pazienza, se muore, muore; vuol dire, che gli porteremo più in là una corona sulla tomba» – dissero le contadine. «A noi ora preme di tornar a casa prima dell’alba, se no le nostre povere vacche rimangono senza la mungitura…»
Le donne tornarono a casa per tempo, ai primi raggi di luce; i medici, invece, all’ospedale si misero a ricercare ed a contare tutte le ossa e le costole rotte di Fëdor.
2
Passò circa un mese.
Era una giornata di festa – il tempo libero…
Le tre donne del villaggio si avviarono verso la città, portando con sé una corona fatta da loro con semplici fiori di campo, destinata alla tomba di uno che avevano dissetato, tirato fuori dal burrone e portato all’ospedale.
Durante il mese trascorso erano successe molte cose e si sapeva anche che i cadaveri, trovati nel burrone, erano stati portati lì dal villaggio cosacco.
La giornata estiva è molto lunga e le donne, partendo all’ora di pranzo, contavano di ritornare prima di sera. Nella città non avevano alcuna faccenda da sbrigare, soltanto questa: rimanere per un po’ in silenzio vicino alla tomba, mettervi sopra la corona di fiori e tornare subito a casa.
Partirono su un carro trainato da due cavalli; bei cavalli e ben nutriti.
Mentre le ruote del carro e gli zoccoli dei cavalli battevano fittamente lungo la strada vicinale poco frequentata, le donne si misero a ricordare come avevano trasportato quel giovane ferito.
«E’ roba da matti, non porta nessuno un ferito tanto grave, così come noi lo abbiamo fatto» – diceva sensatamente una di loro, un po’ più anziana delle altre, di nome Lukerja, sulla quarantina, con gli occhi sbiaditi. «Avrebbe dovuto morire, in verità, già soltanto per tutte le scosse che ha preso nel carro.»
«E’ proprio vero, sono stata io a guidare la giumenta e a frustarla per farla andare più veloce, ma intanto, mi voltavo indietro per vedere come stava il poveretto e il cuore mi scoppiava dal dispiacere…» – diceva la donna un po’ più giovane, Aksinja, sollevando le sue arcuate sopracciglia nere.
«E io gli tenevo la testa sulle mie ginocchia e stavo seduta, senza muovermi, per tutto il tragitto, cosicché mi si sono perfino intorpidite le gambe» – aveva aggiunto al discorso la terza di loro, Likonida, la più giovane delle tre, con la malinconia negli occhi grigi. «Speriamo di poter conoscere almeno il suo nome…»
Al passo lento di due cavalli da traino, il carro portava le tre semplici contadine, con una corona di fiori di campo per la tomba di uno sconosciuto. Dapprima le donne scorsero i campi coltivati dai cosacchi, ma poco dopo cominciavano le zone dei contadini locali, non cosacchi: poco lontano dal villaggio, infatti, c’era la frontiera della regione, che separava le terre del distretto, abitato dai cosacchi e si entrava in un’altra provincia.
Tanta gente, di ogni sorte e specie, doveva da poco aver attraversato, evidentemente, tutti questi campi e piedi incuranti avevano calpestato con indifferenza il frumento, da far piangere il cuore alle donne soltanto nel vederlo.
Tuttavia, brillava dolcemente il sole e la terra odorava con tutto il suo corpo saturo di vapori da donna, noto assai alle contadine (chi altri, se non la terra, ha corpo da femmina!).
Uno sparviero volteggiava nell’alto del cielo, faceva come sempre la guardia alla terra ricca di frutti dell’estate. Nel vicino avvallamento, ricoperto da una fitta vegetazione, cucugliava un cuculo. I tafani grigi dagli occhi grossi si posavano sulla groppa dei cavalli, che agitavano le code per farseli scacciare.
Un piccolo villaggio era stato danneggiato da poco da un grande incendio e le donne lo sapevano: avevano visto il bagliore dell’incendio circa una settimana prima ed ora, passando, s’imbatterono con lo sguardo nelle isbe e rimesse carbonizzate.
«Chissà anche quanto bestiame avranno perso nel rogo» – disse Aksinja, continuando a condurre i cavalli.
«Certo, n’avranno perso, eccome, in un fuoco come questo e che ci vuole!» – convenne Likerja, accomodandosi sotto la paglia.
Likonida, invece, che continuava a tenere in mano la corona, ne strappò una foglia, sembratale superflua, la tenne per un po’ vicino alle labbra e, gettandola sulla strada, disse malinconicamente: «Ma quanto siamo sciocche, femmine sciocche davvero… Dove stiamo andando? A che fare?…»
Dietro il verde scuro dei giardini, si intravedevano i campanili della città, cosicché alle altre due donne non rimase che rispondere: «Oramai siamo quasi arrivate!»
Nei pressi dell’ospedale, il carro con le tre donne dovette passare prima davanti al cimitero, sito dalla parte destra della strada, quindi si dissero: «Se sapessimo il suo nome, sarebbe più opportuno scendere qua ed entrare: il guardiano del cimitero ha il dovere di conoscere tutti i suoi defunti.»
Avevano quasi deciso di scendere dal carro, ma non videro nessuno né avviarsi al cimitero, né aggirarsi sia dentro, che fuori; altrimenti avrebbero domandato a qualcuno, certamente.
Proseguirono e si avvicinarono all’ospedale verso le due del pomeriggio.
Lasciarono il carro nei pressi del portone, diedero ai cavalli un mucchietto di fieno e Likonida dagli occhi grigi non volle lasciare la corona sul carro: se qualcuno se la prendesse, non si sa mai, c’è tanta gente, e così andarono tutte e tre nel cortile dell’ospedale con una corona di fiori, per domandare dove fosse la tomba dell’uomo, che loro stesse avevano portato un mese prima, di notte, all’ospedale e quale fosse il suo nome.
La gente semplice si ricorda dei propri malanni e dei suoi cari solo durante le feste: non ha mai tempo, è troppo occupata nei giorni feriali. Adesso, capitate nella fretta, nel via vai e nella calca del cortile ospedaliero, ricoperto da una fitta macchia d’erba incolta, spuntata tra il selciato; vagavano le tre donne con una corona di fiori per la tomba, non sapendo da chi ottenere informazioni.
S’imbatterono in un grassone con grembiule e chiesero a lui, che, però, per tutta risposta, borbottò soltanto: «Ma non vedete che sono un cuoco?»
Fermarono un altro, con il capo scoperto, anche lui aveva un grembiule e nella mano una secchia puzzolente, le ascoltò, ma disse, che lì era nuovo, arrivato da poco e proseguì per la sua via, di fretta.
Chiesero allora ad una donna, tutta vestita di bianco, con sopra una croce rossa, ma pose lei stessa subito una domanda: «Qual è il suo cognome?»
«Come possiamo saperlo, cara signora?» – si meravigliarono le donne.
«E se non lo sapete, cos’è che state cercando allora?»
Dicendo questo corse via, battendo fittamente i tacchi alti delle sue scarpette.
Incontrarono più in là una vecchietta, che era, come seppero poi, un’addetta alla biancheria, che anche non sapeva nulla, però le accompagnò dall’aiuto medico, un uomo senza barba, ma con dei baffi rossi fiammanti, pure lui indossava un camice bianco.
Quest’uomo le fece stupire proprio: «Un mese fa, dite, è morto?.. Per voi, è facile dire un mese fa, per noi invece è pressappoco impossibile cercarlo, ma rendetevi almeno conto voi stesse… Sapete i tempi che corrono? Quanti morti abbiamo adesso, dovete immaginarvelo…»
«Ma quello, il nostro, è morto ammazzato!» – provarono a rammentargli le donne; ma l’aiuto medico, strabuzzando gli occhi, disse: «Adesso sono tutti morti ammazzati… Adesso non capitano per niente morti non ammazzati!»
Promise, tuttavia, di verificare sui registri.
Le donne, nel frattempo, fecero una puntatina ai loro cavalli: stavano tranquilli e masticavano il fieno. Dopo girarono senza meta in questo mondo: visitarono la lavanderia, la cucina, la discarica (Likonida portava sempre la corona in mano) ed arrivarono in un giardinetto per riposare nell’ombra, al fresco, nell’attesa che l’aiuto medico cercasse quel che serviva loro nei registri dell’ospedale.
Nel piccolo giardino, composto soltanto da due vialetti striminziti, sulle panchine verniciate di giallo stavano seduti alcuni ammalati e tutti indossavano delle vestaglie bianche, ognuno tuttavia aveva un proprio copricapo. Uno degli ammalati stava sdraiato sulla portantina e leggeva un giornale, fatto che le donne tra loro giudicarono persino male. Un altro malato, invece, stava seduto in una carrozzella e fissava in su le foglie dell’albero, aveva ambedue le mani e le braccia bendate ed in testa aveva un bianco berretto a cono… Due altri malati erano circondati, pareva, da parenti e vicino ad uno di loro una bambina succhiava una caramella, tolta dalla carta rosa.
Non troppo decise e tenendosi vicine l’una all’altra, le tre donne passarono lungo un vialetto, fissando attorno, tutto e tutti, coi loro occhi tenaci da campagnole: eccoli come sono gli ammalati, ecco l’abito a tre balze sulla gonna che indossa questa donna, ecco che calzini color marrone ha questa bimba…
Passarono vicino al malato che leggeva un giornale e lo guardarono attentamente, notando, ognuna fra sé, che dita sottili avesse, come cannucce; chissà come poteva tenere un giornale con quelle dita! Gli occhi però aveva sveltissimi… e vicino a quel malato, che stava seduto dentro la carrozzella, passarono le donne e anche lui guardarono molto bene: aveva gli occhi infossati e molto grandi e le braccia erano legate al collo da un nastro bianco… e notarono di questo malato, anche, che la sua carrozzella stava sotto il sole diretto e sembrò loro che sarebbe stato molto meglio invece all’ombra… Ma proseguirono oltre.
Non si poteva, però, andare lontano in un giardinetto tanto piccolo: arrivarono sino al recinto verde e tornarono indietro, seguendo lo stesso vialetto, passando oltre la bimba con la caramella, oltre la portantina, oltre la carrozzella con le rotelle.
Le donne si sollevarono un po’ i fazzoletti dalla testa, per rinfrescarsi all’aria. Intanto Likonida portava la corona di fiori come una cesta appesa su un braccio piegato; chissà perché, le venne in mente di dare un’occhiata alla corona di fiori, mentre s’avvicinavano alla carrozzella e di dire, peraltro, lamentosamente: «Si sono appassiti tutti i nostri fiori, portandoli tutto questo tempo per niente…»
Ma a questo punto il malato con il berretto a cono e con le braccia legate al collo, all’improvviso guardò le donne, tutto preoccupato e pronunciò sommessamente: «Don-ne, don-ne care… Non sarete, per caso, voi?»
Si fermarono le donne di colpo, s’impietrirono come statue.
«Ma sì, ma sì, siete proprio voi, le mie donne, care!» – ripeté il malato con immensa gioia, illuminandosi tutto.
«E’ il nostro!… E’ il nostro!.. Dio, davvero, è il nostro!..» – urlarono le donne, sconvolgendo tutta la quiete del giardinetto. «Sei vivo, caro nostro, sei vivo! Noi, invece, abbiamo portato una corona di fiori per la tua tomba… Eccola… Come avevamo promesso di fare allora…»
E tanto sorprendente era tutto questo, e tanto stupendo era tutto questo, e tanto dolce era tutto questo, e tanto tutto questo sconvolse le anime loro, che le donne non riuscirono a reggersi più sulle gambe e caddero, l’una dopo l’altra, davanti alla carrozzella, in ginocchio, senza pensare, come nell’atto di una preghiera.
1927
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]