Tassare le banche: un boomerang per imprese e famiglie

Prima di decidere di tassare il settore, il Governo avrebbe fatto bene a verificare il grado di monopolio esistente nello stesso. In un ambiente fortemente concentrato, infatti, l’effetto di traslazione è molto forte e, dunque, ciò che ragionevolmente è possibile attendersi è che l’azione governativa risulti del tutto controproducente facendo crescere i tassi di interesse attivi (nella misura tale da compensare la caduta dei margini di profitto netti) e contribuendo a rallentare la crescita economica.

Il rischio che questo effetto si verifichi è, peraltro, maggiore nel Mezzogiorno – dove i tassi sui prestiti sono mediamente già più alti – e per le piccole imprese. Si tratta, infatti, di imprese che non si finanziano, di norma, emettendo titoli e che dunque sono fortemente dipendenti dal credito bancario. Tecnicamente, esse esprimono una curva di domanda molto inelastica, così che il volume di indebitamento cresce al crescere del tasso di interesse.

2) Peraltro, è stato sufficiente il solo annuncio del provvedimento per scatenare una forte caduta di Borsa, per quanto attiene alle principali banche italiane. Sembra che il Governo non si accorga del problema del rischio di sottocapitalizzazione dei nostri Istituti di credito, che, in presenza di un forte aumento della tassazione in un Paese solo, sono esposti all’eventualità di vendita massiccia dei propri titoli.

3) La recente esperienza del fallimento della tassazione degli extra-profitti delle imprese energetiche (Governo Draghi, nel 2022) mostra che, allorché si tratta di settori molto concentrati e con elevato potere politico, l’imposizione di oneri tributari aggiuntivi può facilmente essere elusa.

È peraltro incredibile che il Governo riesca a commettere ben due errori nella stessa misura. Ciò in ragione del fatto che la tassazione dei profitti delle banche è finalizzata a finanziare la riforma fiscale, che, come riconosciuto dalla gran parte degli economisti, non contribuirà alla crescita, ma solo all’aumento ulteriore delle diseguaglianze. Le quali sono in Italia fra le più alte nel confronto con i Paesi OCSE. L’imposizione di un’aliquota unica – la cosiddetta flat tax – infatti avvantaggia una ristretta platea di contribuenti, dotati di un Isee molto alto. L’effetto che questa tassa potrebbe avere sull’aumento delle ore lavorate e dunque sul Pil è a dir poco dubbio e l’esperienza storica recente (ci si riferisce all’amministrazione Reagan, negli USA dei primi anni Ottanta) mostra inequivocabilmente che il solo esito raggiunto è semmai l’aumento del debito pubblico.

La corsa del Governo sembra motivata dall’urgenza di reperire risorse in vista della stesura della Legge di stabilità. Non è affatto una buona idea ricorrere a ulteriore tassazione per recuperare i molti miliardi che ancora occorrono per coprire l’ordinaria amministrazione (per esempio, il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego) e aggiungere a ciò ulteriori uscite per sgravi fiscali ai più ricchi.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno del 9 agosto 2023]

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