Su Fame a Montparnasse (Ultime scene della Bohème) di Raffaele Carrieri

Nei diciannove capitoli che scandiscono l’opera, il narratore/autore, in prima persona, racconta la difficoltà di sopravvivere nella metropoli parigina. Le sue vicissitudini si intrecciano con quelle di personaggi singolari, talvolta artisti famosi, anch’essi alle prese con un’esistenza fatta di stenti e di miseria, alla ricerca di un po’ di fortuna e di celebrità. Fin dal primo capitolo, ove appare il riferimento al pittore Modigliani (chiamato confidenzialmente «Modì» nel testo), di cui l’autore ricorda la morte prematura e il misero funerale, si comprende la particolarità del clima culturale respirato a Parigi da Carrieri, a contatto con alcuni dei più grandi artisti dell’epoca.  L’eclettico artista francese Max Jacob, gli italiani Luigi Corbellini e Enrico Prampolini sono solo alcuni dei nomi celebri che compaiono nelle pagine del libro, accanto a personaggi più anonimi, quasi dei reietti, ma non per questo meno interessanti da un punto di vista umano. Anzi, Carrieri, tracciandone l’identikit, descrivendo le caratteristiche salienti di personaggi meno celebri, desiderosi di ritagliarsi il proprio piccolo spazio in un mondo inospitale, sembra volerli riscattare dall’anonimato attraverso il racconto, restituendo dignità alle loro esistenze talvolta disumane proprio per via delle difficili condizioni economiche e sociali. E così resta impressa nella memoria del lettore la figura della tisica Albertine, con «i suoi occhi grigi e senza vita, i capelli bruciati dall’henné, la figura liscia e striminzita come la miseria», straordinaria nella sua abnegazione e generosità verso gli amici e verso il protagonista, portata via dalla sua malattia; o Gotiko, il lavoratore giapponese morto intossicato da un acido nel ristorante Poccardi in cui lavora il protagonista, la cui salma viene condotta via dai suoi compagni tra l’indifferenza generale; o Dominique Ragoza, amico del protagonista e autore di un poema su François Villon, morto suicida dissanguato dopo aver tentato invano di farsi ricoverare in ospedale per scampare alle misere condizioni di vita.

L’esperienza in una delle principali metropoli europee, Parigi, nella quale convivono e si fondono diverse culture ed etnie, viene trasferita anche a livello linguistico: in tutti i racconti, Carrieri ricorre spesso all’uso di vocaboli propri della lingua ufficiale della nazione che lo ospita, generando un interessante impasto linguistico e conferendo al testo, talvolta, quella raffinatezza che è intrinsecamente connaturata alla lingua francese. E del resto, l’autore appare imbevuto della cultura francese, dimostrandosi profondo conoscitore di scrittori francesi, menzionati talvolta esplicitamente (si veda il riferimento a François Villon), talaltra in modo implicito (ad esempio quando, a p. 29, definisce i banchetti pantagruelici, richiamando il personaggio sul quale l’aggettivo è modulato, frutto della fantasia di François Rabelais).

Le numerose sequenze descrittive che caratterizzano i racconti restituiscono al lettore un’immagine vivida della metropoli parigina. A volte, la città appare personificata, come accade nel capitolo XII, in cui compare una mirabile descrizione della Senna e dell’ambiente circostante. Tuttavia, l’immagine della città che più spesso Carrieri offre al lettore è tutt’altro che edulcorata, sognante o pittoresca. La durezza della vita parigina per degli artisti bohèmiens non affermati non viene nascosta dall’autore, che però non si mostra incline a piangersi addosso, ma piuttosto ad affrontare le difficoltà della vita parigina con spirito bonario e con un’ironia che talvolta sfocia nello humour e nel sarcasmo. D’altronde, però, se la bonarietà ha la meglio sulla disperazione nel protagonista è anche merito della rete di solidarietà e di estrema collaborazione che collega gli artisti e che li spinge ad essere generosi l’uno verso l’altro, mettendo a disposizione una stufa (come fa Max Jacob) o un giaciglio (come Albertine).

Le frasi brevi, che caratterizzano specialmente gli ultimi capitoli e che conferiscono al testo un ritmo serrato e incalzante, somigliante ad un singhiozzo, lasciano talvolta il posto a un tono lirico che fa capolino principalmente quando l’io narrante sperimenta degli inaspettati ed eccezionali momenti di benessere. È facile scorgere in tali passi l’inclinazione poetica di Raffaele Carrieri: e del resto, come ricorda Simone Giorgino, autore del profilo biografico tratteggiato all’interno del volume, dopo una prima stagione letteraria interamente dedicata alla narrativa, Carrieri scelse, dagli anni Quaranta in poi, di dedicarsi quasi esclusivamente alla poesia pubblicando diverse sillogi, mostrando di aver assorbito soprattutto l’influsso di Apollinaire, Ungaretti e Lorca.

Tra i sentimenti, c’è spazio anche per l’amore: proprio come l’esistenza parigina, neppure il sentimento amoroso è scevro da durezze e spigolosità, dunque l’autore ne dà una rappresentazione disincantata. Anche in un capitolo, come il XVI, in cui lo scrittore sembra apparentemente abbandonarsi al romanticismo descrivendo una notte trascorsa accanto alla donna amata, Iseline, la chiusa finale lascia emergere una raffigurazione dismessa e tutt’altro che idealizzata dell’amore, in cui a spezzare l’incanto sentimentale interviene un elemento dissonante e quasi prosaico, con l’amata che si abbandona al sonno russando in modo scomposto e sguaiato. Questa immagine  tratteggiata da Carrieri, pertanto, è ben lontana dal topos della donna angelicata veicolato dalla tradizione letteraria, collocandosi anzi esattamente agli antipodi: l’autore non è interessato a sublimare la realtà, ma a consegnare al lettore un quadro veritiero del mondo circostante, a costo di risultare antiletterario, senza però mai approdare al cinismo.  

Ciò che resta, alla fine dei giochi (e dei racconti) è soprattutto un sentimento di nostalgia nei confronti della vita provinciale, denunciato esplicitamente nel capitolo finale: qui Zindianopolis, violinista rumeno amico del protagonista in procinto di diventare padre, esprime la volontà di portare il nascituro lontano dalla capitale francese, rammaricandosi di aver sprecato gli anni della propria giovinezza dietro all’illusione della gloria, anziché cullarsi nella tranquillità della provincia. Le parole di Zindianopolis ricevono immediatamente l’approvazione della donna amata dall’io narrante, che si dichiara concorde con l’amico prima di abbandonarsi al sonno sognando di portare anch’ella il proprio ipotetico bambino «più lontano…più lontano» dalla caleidoscopica città parigina.

[Recensione a Fame a Montparnasse (Ultime scene della Bohème) di Raffaele Carrieri, a cura di A. L. Giannone, Neviano (Le), Musicaos Editore, 2022, in “Sinestesieonline”, n. 38 – A. XII – Gennaio 2023]

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