Di mestiere faccio il linguista 15. L'”italiano popolare” al tempo della Grande Guerra

Il soldato Donato scriveva dalle trincee del monte San Michele, nel Carso, una delle postazioni principali della difesa austro-ungarica, frapposta ai tentativi dell’esercito italiano di aprirsi vie d’accesso a Gorizia e a Trieste. Gli scontri attorno al monte cominciarono il 3 luglio 1915. La seconda offensiva dell’Isonzo, durata dal 18 luglio al 3 agosto di quell’anno, aveva l’altura come obiettivo principale: gli italiani vi subirono quasi 46.000 perdite, quasi 10.000 gli austriaci. Primo vero battesimo del fuoco per l’esercito italiano,  contribuì in maniera decisiva alla creazione del «mito» del San Michele, subito riconosciuto come uno dei principali teatri di guerra. A quello scontro altri seguirono, sanguinosissimi, fino alla conquista italiana della postazione, il 6 agosto 1916, a conclusione della sesta battaglia dell’Isonzo. Nell’esercito italiano combatté anche Giuseppe Ungaretti che, esattamente il 5 agosto 1916, al monte e a quelle vicende dedicò i quattordici versi, senza rime né segni di punteggiatura, della poesia «Sono una creatura»:  «Come questa pietra / del monte San Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata / Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede / La morte / si sconta / vivendo».

La lettera del soldato morto presenta alcune caratteristiche che meritano attenzione. Corretta la separazione delle parole, salvo che in «se nintende» (“se n’intende”). Saltuaria la punteggiatura, limitata (qua e là) al solo punto fermo. Desultorio l’uso delle maiuscole, presenti in qualche nome proprio (Carminuccia, Cosiminu, Francisco, Angelo, S. Michele, nella firma Donato, in Dio, ma non in sibistiano). L’italiano è approssimativo, ma il contenuto è chiarissimo, i pensieri di Donato sono inequivocabili.

La prima guerra mondiale non fu solo la carneficina che tutti conosciamo. Fu anche, senza averlo programmato, una enorme palestra di alfabetizzazione. Lontani da casa per anni, dislocati spesso in località lontane centinaia e centinaia di chilometri, lettere e cartoline furono per milioni di italiani l’unica forma di comunicazione con parenti e amici. Identica, e anzi per certi versi peggiore, fu la sorte riservata a coloro che, catturati, finirono rinchiusi nei campi di concentramento in terra austriaca, ungherese, o ancora più lontana. È difficile stabilire quale sia stata la percentuale di coloro che possedevano una abilità di scrittura sufficiente a garantire il contatto epistolare con i propri cari (Donato, consapevole del  privilegio, ricorda «papa sonunno / Franciscu che (… gli) maestrò come scrivere e sono / contento e li tico crazie crazie»). Per scrivere gli analfabeti si rivolgevano a commilitoni alfabetizzati disponibili. Alcuni di questi svolgevano una sorta di servizio a vantaggio degli analfabeti, ricevendo qualche forma di ricompensa  (per quanto possibile nelle condizioni atroci della guerra). Ci fu perfino chi, animato da tenacia e spinto dalla necessità, riuscì a impratichirsi di una pratica rudimentale di scrittura (il tempo non mancava, nelle trincee traboccanti di fango, di acqua e di topi).

Le lettere dei soldati e dei prigionieri della prima  guerra mondiale testimoniano l’uso esteso del cosiddetto “italiano popolare”, il «modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama la lingua ‘nazionale’, l’italiano» (De Mauro) ovvero (secondo una definizione un po’ diversa) «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto» (Cortelazzo). Potremmo anche parlare di «italiano dei semicolti» (Bruni; D’Achille), per sottolineare la limitata competenza scrittoria di coloro che si esprimono in italiano popolare, caratterizzati per il loro basso grado di istruzione.

La posta che parte dalle caserme, dal fronte, dai campi di prigionia sfiora raramente temi di portata generale, se si esclude l’insistenza quasi ossessiva sulla morte che è fuori, tutt’intorno,  e nel profondo dell’anima. «e vedo morire e morire ogne giorno», scrive Donato, prima di passare a occuparsi del suo mondo,  familiare e delle campagne, tanto più vagheggiato ora che vive l’angosciante prima linea del campo di battaglia. Il suo italiano trabocca di elementi che rimandano al Salento: «crazie crazie» ‘grazie grazie’, «minescia» ‘minestra’, «papa» (grecismo) ‘don’ (titolo di rispetto), «spierto» ‘vivace, intelligente’, «spiettu» ‘debito’, «sonunno», cioè «zzu nunno» ‘zio padrino’ (titolo di rispetto, dato a persona autorevole, che oltre tutto gli ha insegnato a scrivere), «sponzalori» («sponzali» + «-ori») ‘cipolla giovane’,  «ulie» ‘olive’, e molti altri benissimo commentati nel libro di Lorenzo Renzi, «Lettere dalla Grande Guerra. Messaggi, diari e memorie dall’Italia e dal mondo», Milano, il Saggiatore, 2021.

  È un libro affascinante, con esempi che abbracciano l’intera Europa, in cui il rigore dell’analisi scientifica si accompagna ad una esposizione gradevolissima e affabile, che ne permette la lettura anche al pubblico non specialistico. Interessa chiunque voglia guardare alla grande guerra non dal punto di vista di coloro che promossero la guerra per interessi politici, economici, o per beneficio personale, ma con gli occhi di coloro che quella guerra subirono, perdendoci spesso la vita.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 30 luglio 2023]                                                                  

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (sesta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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