Restano le parole che hanno parlato di quel luogo, se una volta ne hanno parlato: quelle parole che sono l’espressione più inconsistente, che hanno la leggerezza di un fiato, di un vapore, durano più di ogni altra cosa, oltre ogni vita di creatura. Perché passano da voce a voce, da memoria a memoria, anche quando si perde il timbro della voce, quando si spezza il filo della memoria originaria, anche quando non s’intravede il profilo di chi sarà memoria futura e non si conosce il tono della voce che racconterà.
Forse una terra esiste soltanto se viene raccontata. Il tempo di una terra, i suoi paesaggi, la sua gente, le storie, i misteri, i contrastanti sentimenti, la memoria, i notturni, gli albori, le parole, i sortilegi, esistono, hanno senso, solo in quanto e fin quando muovono un racconto. Perché al principio e alla fine non c’è altro che un racconto.
Quando tutti i giorni passano, e passano le creature, e i luoghi mutano la forma e mutano sostanza, rimane il racconto di com’ erano le creature, di com’erano i luoghi.
Forse il più bel racconto che sia stato scritto sul Salento, quello che costituisce un riferimento per chiunque senta il desiderio di scoprire la radice della sua Storia, è il De Situ Japygiae. Antonio De Ferraris, detto il Galateo, lo lavorò fra il 1506 e il 1511. C’è storia, geografia, antropologia, in quel libro. Ci sono gli accenni alla fantasticherie, alle illusioni, alle leggende di questa terra che talune volte provengono dai fenomeni della natura. Come quando racconta delle mutate di cielo, delle immagini di città e castelli e torri, armenti e buoi variopinti che si vedono là dove non ci sono città nè castelli, né torri, né armenti, né buoi variopinti.
“Non è da molto tempo che tutta la costa che va da Otranto fino al monte Gargano vide nella sola e medesima ora prima del sorgere del sole una flotta che procedeva a vele spiegate dalla parte dell’Oriente; si credette che fosse una di quelle turche e prima che il fantasma o quell’illusione si dileguasse sul far dell’aurora furono scritte qua e là varie lettere e furono mandati messaggeri per annunziare l’arrivo di una grande flotta”.
Galateo spiega scientificamente la natura di questi fenomeni, ma il fatto di averli riportati costituisce la testimonianza di una considerazione non marginale dell’importanza che per la gente del Salento assume la dimensione dell’immaginario collettivo.
Forse, noi, qui, da sempre, siamo attratti dalla trasparenza delle immagini, dalle sensazioni provocate dalle cose e dalle manifestazioni della natura. Forse ci sentiamo, consapevolmente o inconsapevolente, coinvolti dalle condizioni di parvenza, di impalpabile, di irreale. Molta poesia del Novecento salentino è attraversata da questa condizione: da una sospensione del reale e da un’immaginazione che lo sostituisce, dall’elaborazione di figurazioni, dal riflesso delle cose, dal loro riverberarsi, anche deformarsi, dalla parvenza, dallo sconfinamento nel fantastico, dalle ombre che si allargano, si spandono, e assumono forme a volte indecifrabili. Forse, da sempre, noi, qui, siamo richiamati dai misteri, da quello che è nascosto e che di tanto in tanto si presenta come un fantasma, dal magico, dal metamorfico, dall’ambiguità del chiaroscuro. Siamo richiamati dal mito. Ma soprattutto, siamo noi stessi a trasformare in mito i fatti della natura e della Storia. Per esempio: abbiamo trasformato in mito il morso della tarantola; abbiamo trasformato in mito l’assedio e il saccheggio di Otranto. Tanto con il morso quanto con l’assedio abbiamo costruito letteratura. Fernando Manno, in “Secoli fra gli ulivi” ha trasformato in mito tutto quello che veniva sfiorato dal suo sguardo o dalla sua memoria.
Molta letteratura del Novecento salentino si è confrontata con la realtà senza nessuna intenzione di indagarla ma con la tensione di elaborarne una diversa. A quell’altra realtà inventata si fa spesso riferimento quando pensiamo il luogo chiamato Salento.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 23 luglio 2023]