di Antonio Devicienti
Ogni sua performance pubblica è una cerimonia, la poesia è QUEL TEMPO del dire e del salmodiare, è QUELLO SPAZIO dove Yoshimasu Gozo e talvolta un gruppo di giovani musicisti di free jazz incontrano i convenuti.
Il martello con cui ritma il dire o squarcia lo spazio, le pietre di sanukite che gli pendono dalla bocca generando il suono della terra e del tempo abissale, tutto il suo corpo che si muove e si piega e si accovaccia o si alza in piedi, tutto è la materia sonora e spaziale della poesia.
Poesia materiale. Corporale. Sonante e dissonante.
E ci sono i suoi manoscritti, lunghi rotoli svolti per terra durante la performance, paesaggi di scritture e segni e colori sui quali egli talvolta versa inchiostri colorati o che martella con quel suo martello-scettro sciamanico che apre l’accesso nella poesia incarnata, nella poesia in atto.
Yoshimasu Gozo conduce la poesia fuori dal libro, egli distrugge il libro per creare lo spazio pluridimensionale della poesia-mentre-accade. Il multiverso delle lingue dell’uomo e dei segni naturali – vento, alberi, mare, movimenti tellurici – attraversa il suo corpo e la sua voce (spesso è impossibile distinguere la sua voce e il suo corpo). L’offensiva violenza del capitale e del suo braccio armato annienta secoli di civiltà, millenni di bellezza naturale: la poesia di Yoshimasu Gozo è il grido di ribellione, l’eco della libertà.