Per provare a comprendere le ragioni profonde del disinvestimento pubblico in infrastrutture, è utile dar conto di ciò che è storicamente accaduto nella nostra regione per quanto attiene innanzitutto alla localizzazione industriale del settore privato. Nel secondo dopoguerra, e ancor più negli anni del cosiddetto miracolo economico italiano, la crescita economica del Paese era demandata alla produzione industriale che si svolgeva nel triangolo Milano-Torino-Genova. Si trattava di produzioni industriali che venivano realizzate in grandi stabilimenti, nei quali lavoravano migliaia di operai, secondo una logica propria della tecnologia fordista e della catena di montaggio. È ben noto che l’agglomerazione di operai in un opificio è una precondizione per l’attivarsi del conflitto sociale (si pensi alla funzione di aggregazione che svolgevano le mense). Infatti, negli anni Settanta, il conflitto sociale esplose: aumento delle ore non lavorate, del numero di scioperi, rivendicazioni di aumento dei salari e di estensione dei diritti sociali concorsero nel comprimere i margini di profitto nell’asse Milano-Torino-Genova. La reazione del padronato fu nella logica degli antichi romani del “divide et impera”. Si trattò, cioè, di delocalizzare unità produttive per indebolire la forza contrattuale dei lavoratori, spostando segmenti di produzione in aree vicine e più povere. In una fase precedente la globalizzazione, e con elevati costi di trasporto, queste aree furono individuate innanzitutto nel Veneto. A poco a poco, con la nascita di un’imprenditoria locale, quella regione da esportatrice di manodopera divenne una delle zone trainanti dello sviluppo economico del Nord e si dotò di una sua rappresentanza politica (la Lega Nord). Ancora per minimizzare i costi di trasporto (superare gli Appennini era, in quella fase, estremamente costoso), la nascente imprenditoria veneta, alla ricerca di salari più bassi e di costi minori, operò il suo decentramento produttivo lungo la linea adriatica dello sviluppo: dunque, coinvolgendo Emilia-Romagna, Marche, fino alla Puglia. Al Salento arrivò poco e la gran parte delle lavorazioni in subfornitura si fermò a Bari. Terminata quella stagione, Lecce andò sempre più configurandosi come area a vocazione culturale, con Taranto industriale (Ilva) e Brindisi portuale, con produzioni prevalentemente agricole, fino a scoprire il turismo negli anni più recenti. Né al Nord né a Bari capoluogo è, quindi, mai risultato funzionale lo sviluppo economico di quest’area: prova né è che il basso investimento privato in regime di decentramento produttivo è stato associato al basso investimento pubblico in infrastrutture. Tranne, infatti, per una brevissima stagione, il rapporto Stato-mercato, nell’esperienza italiana, è stato ribaltato rispetto a ciò che vorrebbe il sentire comune, ovvero la necessità di disporre di ampi servizi pubblici come precondizione della crescita degli investimenti privati. Si tratta di un ovvio effetto di complementarità (che, da solo, dovrebbe spingere a spendere per il potenziamento e il miglioramento della rete locale di trasporto), che è stato declinato a contrario, e che ha condannato quest’area a una condizione di arretratezza. Si è, cioè, assecondata l’accumulazione di capitale in alcune aree con ampie elargizioni di denaro pubblico finalizzate a renderne moderna la rete infrastrutturale. Lecce e la sua provincia hanno, dunque, progressivamente perso potere politico (il Pil pro-capite costituisce l’indicatore del potere politico di un territorio), scontando questa debolezza nell’arretratezza del sistema locale dei trasporti.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 22 luglio 2023]