Le situazioni non sono immutabili. Nella percezione comune le idee di giustizia avanzano (troppo lentamente, per quello che vorrei, a volte facendo balzi all’indietro); pochi osano dichiararsi apertamente razzisti, ma spesso parole e atteggiamenti tradiscono i pensieri riposti. In conseguenza delle mutate condizioni generali, sorge una nuova questione. Come comportarsi con le testimonianze e con le opere che documentano il passato razzista e usano parole che contrastano con la sensibilità attuale? Nella nuova traduzione italiana di «Via col vento» (uscita da Neri Pozza, pochi anni fa) la parola «negro» della prima traduzione è scomparsa, sostituita da «nero», consona all’odierno modo di sentire. Non sempre le cose sono (relativamente) semplici, a volte il giusto spirito di reazione ai guasti del pensiero e della lingua trova espressioni che lasciano perplessi. La «Friends’ Central School» di Filadelfia, una delle scuole più prestigiose della città, ha deciso di eliminare dai programmi di studio «Huckleberry Finn», il capolavoro di Mark Twain che Hemingway considerava il romanzo da cui ha origine la letteratura americana moderna. La messa al bando è dettata del fatto che nel romanzo compare spesso la parola «nigger» e Huck, il ragazzino protagonista, appare a volte poco attento a temi che colpiscono la sensibilità attuale, non è un modello positivo per i coetanei d’America.
Si intitola «Ten Little Niggers» (“Dieci piccoli negri” o “Dieci negretti”) il celeberrimo giallo di Agatha Christie, venduto in 110 milioni di copie, all’undicesimo posto nella classifica mondiale dei libri più venduti nella storia. Uscito dapprima a puntate sul giornale inglese «Daily Express» tra il giugno e il luglio del 1939, fu pubblicato come libro in Gran Bretagna nel tardo 1939. I dieci piccoli negri richiamati dal titolo sono dieci statuine collocate come centrotavola della sala da pranzo, nella casa dove avvengono, uno dopo l’altro, i delitti del giallo. La prima edizione italiana del romanzo, uscita nell’agosto 1946 presso Arnoldo Mondadori Editore (quello storico e glorioso, non l’editore attuale dello stesso nome) si intitolava «…e poi non rimase nessuno», adottando e traducendo il titolo “neutro” con cui il libro era uscito negli Stati Uniti nel 1940: «And Then There Were None», scelto proprio allo scopo di non offendere gli afroamericani statunitensi, eliminando dal titolo la parola «nigger». Con le stesse finalità edulcoranti fu intitolata «Dieci piccoli indiani» (gli indiani non si sentono offesi?) la versione italiana del film del 1945, diretto da René Clair. A partire dal 1977 quel titolo fu ripreso dalle edizioni italiane del giallo, oggi è quello in uso.
A partire dagli ultimi decenni del Novecento «negro» assume nella lingua italiana una evidente connotazione razzista. Come comportarsi quando testi in italiano derivano da testi scritti in inglese, nelle traduzioni di opere letterarie o nei dialoghi di film e di serie televisive angloamericane? La questione non è solo linguistica, è politica, è civile. Ecco un esempio. «Il buio oltre la siepe» è un romanzo di Harper Lee, uscito in edizione inglese nel 1960, in prima traduzione italiana nel 1962, in una nuova traduzione nel 2017 (ne è stato tratto un film, uscito nel 1962 negli Stati Uniti e nel 1963 in Italia). La vicenda si svolge in Alabama, all’inizio degli anni Trenta, durante la grande depressione. Tom Robinson, un bracciante nero, viene ingiustamente accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca. Atticus, avvocato intelligente e sensibile, riesce a dimostrare l’ innocenza dell’imputato, provando che le percosse e la violenza subite dalla giovane sono opera del padre, il rozzissimo Bob Ewell. La giuria condanna ugualmente il bracciante nero e la maggior parte degli abitanti della cittadina disprezza Atticus, definito «nigger-lover», cioè «negrofilo», e non è un complimento, è un insulto. Il colpevole Bob Ewell cerca di uccidere i due figli di Atticus, ma viene fermato e ucciso da un onesto vicino. Pur consapevole di come si sono svolti i fatti, lo sceriffo, per evitare il clamore del processo, decide di archiviare il caso come un incidente.
Nell’originale per indicare le persone di colore vengono adoperati gli aggettivi «black» e «coloured» o il sostantivo «negro», pl. «negroes»; in bocca ad alcuni personaggi che intendono insultare ricorre soprattutto «nigger». Nella prima traduzione italiana gli aggettivi «black» e «coloured» sono unificati nell’espressione «di colore», «negro» e «nigger» sono tradotti con «negro». Oggi nessuno tradurrebbe così, una scelta traduttiva di tal genere risulta intollerabile, a me e spero a molti altri. Non a caso, nella nuova traduzione del romanzo, a «nigger» corrisponde «negro» (per rendere le intenzioni offensive dell’originale), mentre «negro» è tradotto con «nero» (sentito come neutro e quindi accettabile, conforme al modo di esprimersi oggi prevalente). Parla di tutto questo (con molti dettagli) Francesco Montuori, dell’università di Napoli, in un capitolo del bel libro L’italiano. Varietà, testi, strumenti, scritto insieme a Chiara De Caprio, Patricia Bianchi, Nicola De Blasi (tutti della stessa università), uscito nel 2021 per LeMonnier Università (da qui traggo anche la citazione che è nel capoverso successivo).
Dobbiamo imparare a usare in modo accorto e confacente le parole. Le mille facce del razzismo, della discriminazione, della sopraffazione, inquinano i cuori e le menti, e si manifestano attraverso la lingua: lo vediamo tutti i giorni, se sappiamo guardare. Le parole hanno sfumature che sta a noi precisare, realizzando atti comunicativi corretti, nel parlato e nello scritto. «Non siamo schiavi delle parole, poiché siamo padroni dei testi». È una bellissima frase di Harald Weinrich, «La lingua bugiarda. Possono le parole nascondere i pensieri?», Bologna, il Mulino, 2007 (1996), che mi piace assumere a epigrafe di questo articolo (e dell’intera rubrica).
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 luglio 2023]