Qui Lecce, ed è questa la prima fondamentale differenza, non è più soltanto lo sfondo delle vicende narrate, come avveniva nel Fiore dell’amicizia, ma diventa protagonista alla pari degli altri personaggi del racconto: del porco, fuggito dal mattatoio col coltello ficcato nel collo, di Carosino, il guardiano del cimitero, e della moglie Addolorata, del Sei- Dita. Lo spazio della città qui, insomma, per dirla ancora con Bourneuf e Ouellet, diventa “la ragione stessa dell’opera” (23). Nel racconto esiste infatti un rapporto, direi quasi, necessario tra ambiente e vicende narrate, tra descrizione dello spazio e caratteristiche dei personaggi, ma non ovviamente in senso deterministico, cioè per un rapporto di causa-effetto, alla maniera dei romanzi naturalisti dell’Ottocento, bensì per nessi più profondi di natura analogica e simbolica istituiti dall’autore, in base proprio alla sua personale visione e interpretazione della città.
Quali sono allora, in sintesi, le caratteristiche di Lecce, che emergono dalla rappresentazione che Bodini ne fa nel Sei-Dita, e che influenzano direttamente le vicende narrate? Intanto una caratteristica che già abbiamo già visto nel romanzo composto dieci anni prima, cioè la lontananza dagli altri centri della nazione, che però in questo periodo assume un ben altro significato, di polemica nei confronti di certi sviluppi della storia d’Italia, non proprio favorevoli al Sud (“Certo, la città è lontana da altre città e da ogni parte s’affaccia a una campagna d’aridi tufi e di contorti alberi” (24), poi l’isolamento e la desolata piattezza della pianura circostante, che riesce ad appiattire anche i pensieri degli abitanti di queste zone (“sola e incontaminata su un orizzonte così uniforme che scoraggia la vista, e le pietre e gli alberi e temo anche i pensieri degli uomini ne vengono irrimediabilmente appiattiti” 25), e ancora l’immobilità (“senza nemmeno un fiume, un miserabile ruscello che si porti via qualcosa o ne dia l’impressione agli occhi di chi guarda, col suo scorrere” (26), la noia e la monotonia della vita che vi si conduce, motivo anche questo anticipato dal Fiore dell’amicizia, (“e in tale isolamento la sua vita è assai poco dissimile da quella d’una guarnigione sepolta nella noia, che non ha altro ideale che quello di passare il tempo” (27) e, come diretta conseguenza, la tendenza al “dileggio”, alla malignità (“la sua [della città] inclinazione più facile […] è quella di ridurre le cose al loro aspetto più consunto e meschino” (28).
Ecco allora perché la vicenda di Carlo Antonio Luigi, duca di S*, detto il Sei-Dita, che dona ai poveri tutti i suoi beni per poi scoprire che essi erano andati a finire di nuovo nelle mani dei ricchi, vicenda che in un’altra città avrebbe potuto avere “un’efficacia di esempio”, a Lecce scade invece a livello di aneddoto e quello del Sei-Dita “già prima della sua morte (se morì) fu variamente alterato e ridicolizzato” (29).
Questo spiega anche il fallimento clamoroso del suo generoso gesto, che contrasta sia con i comportamenti consueti degli altri nobili della città, i quali invece ritenevano inutile anche fare elemosine, “visto che i poveri non perciò cessavano d’esser tali” (30), sia con la difficoltà insuperabile da parte di chiunque, in una città come Lecce, con quelle determinate caratteristiche or ora ricordate, di poter modificare una situazione storica e sociale ormai consolidatasi da secoli.
Da qui, ancora, la lieve ironia con cui l’autore tratta un episodio della storia di Lecce, quello relativo alla questione della venuta o meno in città dell’imperatore Carlo V, in occasione della costruzione dell’arco trionfale, attraverso lo spassoso dialogo tra uno scrupoloso studioso tedesco, “venuto apposta, se non erriamo, da Leipzig” (31), e il reticente direttore dell’Archivio storico, più interessato, e non certo per motivi di studio, a ricerche di natura genealogica sulle più eminenti famiglie cittadine.
Nei confronti della città permane comunque anche qui il consueto atteggiamento di odio-amore da parte dell’autore che non rinuncia a manifestare, attribuendolo al personaggio del Sei-Dita, il suo desiderio di fuga da Lecce:
Ora più rigido e duro che mai nella barba ben rasa dei morti, il Sei-Dita non sconfesserebbe mai l’aver donato le sue ricchezze; piuttosto, se c’è stato un punto sbagliato, direbbe, è stato quello del ritorno: che è il dente segreto che duole a tutti i leccesi: quelli che son partiti e poi ritornati e i molti a cui almeno una volta non avrà mancato di presentarsi l’occasione di andarsene per sempre (32)
A Lecce sono ambientati ancora altri racconti che Bodini scrisse negli ultimi anni e in particolare il più significativo di essi, Il duello del contino Danilo, composto nel 1970, pochi mesi prima della morte, anche questo a sfondo autobiografico, in cui l’autore torna nuovamente a riflettere sulla propria giovinezza. Al centro di esso c’è la descrizione della vita dissipata di un nobilotto di provincia, il contino Danilo appunto, “leggero figlio dell’aria e superficiale in tutto fuorché nel fatto di rendersene conto” (33), che ha come “pilastri” della sua esistenza il gioco alla roulette e l’amore. Qui la rappresentazione di Lecce tocca sicuramente il livello più astratto e simbolico visto finora. In questo racconto c’è come una smaterializzazione della città, diventata ormai un puro “luogo mentale”, una “condizione dell’anima” appunto, uno spazio tutto interiorizzato. Lecce infatti è il “palpitante scenario” (e anche questo aggettivo è indicativo), in cui “ogni giorno faceva la sua apparizione il contino Danilo”, diventa lo specchio in cui si riflette la sua immagine (“solo per metà occupato a guardare e a guardarsi nella sua città” 34). La città arriva a perdere qui i suoi connotati di immediata riconoscibilità e si riempie di inquietanti apparizioni:
Mentre il contino avanzava col naso in aria a scrutare, a cercar di vincere, di ammansire con gli occhi quegli umori nemici, quella contraddizione che era in lei, si sentiva fastidiosamente chiamato a cenni da persone che erano nella piazza, santi e madonne o ancora in scheletri rivestiti di carta o in candida cartapesta già passata a a gesso, con le occhiaie vuote, che facevano a gara a benedirlo o ammonirlo con la destra levata o a invitarlo enfaticamente a esultanze e resurrezioni (35).
Diventa una sorta di labirinto, un luogo da sogno o da incubo, quasi la rappresentazione visiva insomma dei dubbi, delle angosce di questo personaggio:
Lasciata la piazza, si addentrò in un dedalo di viuzze candide di calce e folli, come se le case vi fossero sorte da sole seguendo un capriccioso disordine, con porte a mezz’aria, balconcini senza ringhiera e scalini che non portavano da nessuna parte (36).
Ma soprattutto la città e la campagna circostante, in particolare, diventano il riflesso del vuoto, della condizione anteriore di angoscia del protagonista:
… il contino Danilo abbandonò il viale lungo le mura che costituiva il confine delle loro passeggiate, e cominciò a perdersi per la campagna circostante, che cominciava dopo poche case e lì, fra strade e viottoli polverosi, incontrò l’antico incubo della sua adolescenza, (e che credeva d’aver perduto con essa), il vuoto regno di polvere, di scogli e di pietre, da cui attratto e inorridito molte mattine non andava a scuola per percorrerlo per molti chilometri in ogni senso, nella speranza sempre delusa di trovare in qualche angolo un po’ di verde che non fosse qualche ulivo selvatico intristito o un fico dalle braccia nude e morte (37)
Questo desolato paesaggio, da cui il contino Danilo si sente “attratto e inorridito”, rappresenta dunque il “senso del vuoto, del nulla personificati”, il “correlato oggettivo”, per usare un’espressione di Donato Valli, di “quel vuoto” che faceva soffrire il giovane, e che un suo amico gli consiglia di colmare con la parola, perché “l’azione di uno scrittore – gli dice – è la parola” (40). A questo punto l’identificazione tra ambiente e personaggio, tra la città e il contino Danilo, e in ultima analisi tra Lecce e Bodini, non poteva essere più completa.
[In A.L. Giannone, Scrittori del Reame. Ricognizioni meridionali tra Otto e Novecento, Lecce, Pensa Multimedia, 1999, pp. 65-80]
NOTE
22 Le espressioni sono tratte da V. BODINI, Psicologia del barocco leccese, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 2 marzo 1951. Con il titolo Barocco del Sud, lo scritto era già apparso in “Letteratura/Arte contemporanea”, a. 1, n. 6, novembre-dicembre 1950, pp 52-54.
23 R. BOURNEUF-R. OUELLET, L’universo del romanzo, cit., p. 94
24 V. BODINI, II Sei-Dita, in La lobbia di Masoliver e altri racconti, cit, p. 87.
25 Ivi, p. 67.
26 Ivi, p. 88.
27 Ibid.
28 Ivi, p. 79.
29 Ivi, p. 67.
30 Ivi, p. 76.
31 Ivi, p. 83.
32 Ivi, p. 82.
33 V. BODINI, Il duello del contino Danilo, in “Rassegna trimestrale della Banca po- polare agricola di Matino e Lecce”, fasc. 2, giugno 1982, poi in Prose inedite, cit., pp.
23-40.
34 Le citazioni sono a p. 23.
35 Ivi, p. 29.
36 Ivi, p. 33.
37 Ivi, p. 38.
38 Ivi, p. 39.
39 D. VALLI, Sul Bodini prosatore, ivi, p. 21.
40 V. BODINI, II duello del contino Danilo, cit., p. 39.