di Antonio Lucio Giannone
L’atteggiamento di Bodini verso la sua città, la sua terra, il Sud cambia radicalmente soltanto dopo la fondamentale esperienza in terra di Spagna (1946-1949). Solo allora Bodini “riscoprirà” Lecce, la guarderà in modo diverso, costruendo il mito della città barocca “vedova del suo tempo”, “condizione dell’anima” più che “luogo della geografia”, dove s’arriva solo casualmente “scivolando per una botola ignorata della coscienza”. Queste espressioni sono tratte da Psicologia del barocco leccese, forse il suo testo di poetica più importante e anche letterariamente rappresentativo. Qui egli, com’è noto, dà un’interpretazione del barocco leccese come horror vacui, cioè come angoscia del nulla, come paura della morte, istituendo delle precise corrispondenze tra l’architettura barocca della città e l’anima dei suoi abitanti, tra senso di una storia che non riesce a procedere e “spazio desolato” della pianura circostante, che “lascia da ogni parte l’orizzonte scoperto, sotto un cielo che è impossibile come un piatto di porcellana”, e in cui tutte le cose “giacciono in una cruda separazione, senz’altri rapporti se non arbitrari” (22). Questa interpretazione è presente anche in alcune liriche della Luna dei Borboni, dedicate alla sua città, tra le più alte della sua produzione poetica: Lecce, Col tramonto su una spalla e Via De Angelis, tanto per citare le principali.
Ma ritorniamo a vedere adesso come concretamente Bodini rappresenta Lecce in alcuni racconti di questi anni e che cosa cambia rispetto ai precedenti sotto questo particolare aspetto. E in primo luogo ci tocca accennare al suo racconto più riuscito e famoso, Il Sei-Dita (1955), vera “summa” della leccesità di Bodini, nel quale confluiscono tutte le sue riflessioni sulla storia e le tradizioni della città, sviluppati in vari scritti di questi anni, a cominciare dallo Zibaldone leccese, ancora in parte inedito.