È inoltre estremamente più diffuso in Italia il part-time involontario. Si osserva empiricamente il seguente fatto stilizzato: quando in Europa si riducono occupazione e salari, nel nostro Paese si riducono più velocemente e quando i salari crescono in Europa, crescono meno rapidamente in Italia. È tuttavia molto diffusa la cosiddetta contrattazione pirata, con salari molto bassi e di gran lunga inferiori a quelli derivanti dalla contrattazione collettiva. Si tratta di un dato difficile da stimare, dal momento che è possibile – come rileva ADAPT (2022) – che la mancata indicazione del codice del CCNL nell’archivio di riferimento UNIEMES dipenda non dall’assenza del contratto ma dal mancato deposito presso il CNEL. In ogni caso, si può stimare una percentuale nell’ordine del 15% di lavoratori italiani non coperti dalla contrattazione. Oppure si fa riferimento a 729.544 per i quali mancherebbe il contratto, al 2021, e di 772.286 lavoratori al 2020. i lavoratori senza l’attribuzione di un CCNL presente in UNIEMENS. Emerge, dunque, che fra i 700 e 800 mila lavoratori non sono stati tutelati da un contratto di lavoro nell’ultimo biennio. È in continuo aumento il lavoro povero, ovvero la condizione per la quale anche chi è regolarmente occupato riceve un salario al di sotto di quello che consente un’esistenza dignitosa, secondo gli standard prevalenti e secondo le soglie di povertà stabilite statisticamente, come rilevato nel rapporto INPS del 2022. Si calcola, a riguardo, l’esistenza di ben 5,2 milioni di lavoratori dipendenti (26,7%) che nella dichiarazione dei redditi del 2021 denunciano meno di 10 mila euro annui. L’Italia è uno dei Paesi al mondo con maggiore diseguaglianza distributiva, dovuta principalmente alla caduta di lungo periodo della quota dei salari sul Pil (e a un sistema fiscale che pesa molto sul lavoro dipendente). Quest’ultima sembra essere dovuta, a sua volta, alla maggiore accelerazione che l’Italia ha dato alle misure di precarizzazione del lavoro, come risulta dal nostro bassissimo EPL (Employment Protection Legislation).
Le preoccupazioni confindustriali – in particolare la convinzione che l’inflazione possa accelerare a seguito dell’introduzione di minimi salariali – sono infondate, per due fondamentali ragioni: a) La gran parte dei contratti di lavoro o è scaduta o è stata rinnovata prima del ritorno dell’inflazione. Quasi nessuno di questi contratti, peraltro, prevede l’imposizione di incrementi retributivi qualora l’inflazione effettiva superi quella prevista al rinnovo. Più in particolare, il CNEL rileva che sono scaduti i contratti per oltre 7milioni e 700mila lavoratori, pari al 62% del totale. In più, sono molto diffusi i cosiddetti contratti pirata, sottoscritti da organizzazioni non rappresentative e che consentono alle imprese di competere al ribasso delle retribuzioni; b) L’introduzione del salario minimo ha effetti positivi su consumi e produttività del lavoro. Nel primo caso, si tratta di una conseguenza evidente e positiva per la dinamica della domanda interna. Nel secondo caso, la motivazione sta nella circostanza che, come già osservava Francesco Saverio Nitti, quando i salari sono bassi “i lavoratori hanno il cuore in sciopero”: ne risente negativamente il loro rendimento e anche l’incentivo per le imprese ad ammodernare gli impianti per ridurre i costi. I minimi salariali accrescono, dunque, la produzione non l’inflazione. La ripresa dell’inflazione è imputabile al combinato della riduzione dell’offerta di gas da parte della Russia e della speculazione, accelerata da incrementi – semmai – dei margini di profitto.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 luglio 2023]