Topografia letteraria: Lecce nei racconti di Vittorio Bodini (Parte prima)

Al tempo della sua giovanile esperienza futurista, ad esempio, cioè nei primi anni Trenta, a prevalere in Bodini è ovviamente un senso di incomprensione e di insofferenza per questa città. In un articolo intitolato Futurismo a Lecce?, che fa parte di una rubrica, Lettere leccesi, una sorta di reportages, da lui inviati alla “Voce del Popolo” di Taranto, Lecce viene accusata di essere “passatista” e conservatrice, “punto morto nella geografia futurista”, “incastrata, in fatto d’idee, nei tempi del barocco profuso nei suoi monumenti” (2). Per cui al diciottenne Bodini veniva spontaneo di gridare provocatoriamente, insieme con i suoi (pochi) compagni d’avventura, “Abbasso Santa Croce”, anche se questo grido, scrive, equivaleva a “essere linciato dall’opinione pubblica” (3). E qui non può non colpire il bersaglio che l’irrequieto scrittore prende di mira, proprio il simbolo più alto di quel barocco su cui, come ho accennato, si basa poi, nella fase della maturità, la sua interpretazione della città.

Eppure, già da adesso c’è un’insolita attenzione per Lecce, per i suoi luoghi, per la sua topografia, che, in un’altra delle Lettere leccesi, intitolata non a caso Paesaggio letterario (4), balza in primo piano. Qui infatti, dove pure manifesta apertamente la propria “tendenza centrifuga”, cioè ad andar via da Lecce, che è un’altra delle costanti del rapporto tra lo scrittore e la sua città, Bodini traccia quasi una mappa dell’intellighenzia locale, collocando ciascuno dei suoi rappresentanti in un luogo preciso: lo storico Pietro Marti, nonno materno dello scrittore, alla Biblioteca provinciale, di cui era direttore, l’erudito Nicola Vacca all’Archivio di Stato, il giornalista Ernesto Alvino al bar omonimo, altri letterati ormai dimenticati come Livia Casotti al caffè Buda, Vittorio Modoni al caffè Roma, Agostino De Leo e Gaetano Pignataro alla tipografia Modernissima.

Ma dalla “preistoria”, a cui ho voluto accennare soltanto per far notare come sia precoce in lui questo interesse per Lecce, spostiamoci ora alla storia di Bodini, seguendo sempre questo filo, rappresentato dal rapporto dello scrittore con la sua città. E arriviamo al periodo fiorentino (fine anni Trenta-inizio dei Quaranta), allorché Bodini riprende la sua attività letteraria, a contatto con il fervido ambiente del capoluogo toscano, entrando in rapporto con i poeti e i critici ermetici (5).

A questo periodo risale un racconto, che deve essere messo all’origine della sua più matura produzione non solo per motivi cronologici (è infatti in assoluto il primo che pubblica dopo la fase avanguardista), ma soprattutto per la presenza di un grumo, di una ferita oscura, che qui affiora per la prima volta e che si ritrova in larga parte della sua opera. Si tratta di Restauri, apparso originariamente sul periodico fiorentino “Incontro” nel 1940 (6) e ripubblicato l’anno successivo sul settimanale leccese “Vedetta mediterranea”(7) col nuovo titolo di Largo dei Teatini, introdotto, come scriveva in una lettera a Oreste Macri, “per compiacere ai leccesi” (8) (e infatti questo titolo allude a un luogo preciso della città, dove era situata la casa dei nonni materni dello scrittore). Restauri è composto dunque di tre rapidi flashes back su altrettanti avvenimenti dell’infanzia dell’autore (un viaggio in Liguria con la madre, la morte e il funerale del padre), che vengono ricostruiti (da qui il titolo) grazie a un paziente esercizio della memoria, spesso attraverso particolari trascurabili che servono a mettere in moto, secondo la lezione proustiana, il complesso meccanismo del ricordo. Il racconto è ambientato dunque per un terzo in Liguria e a San Remo in particolare, per due terzi a Lecce, dunque in luoghi diversi che in un’opera narrativa possono intrattenere tra di loro, come è stato osservato, “rapporti di simmetria o di contrasto, di attrazione, di tensione o di repulsione” (9).

Ma anche nella prima delle tre parti in cui esso è suddiviso compare un riferimento alla città d’origine, qui non nominata esplicitamente col suo nome, che in questo caso viene messa in rapporto di opposizione con i luoghi incantevoli visitati nel suo viaggio dalla madre, della quale si riprende il punto di vista. E mentre quel nuovo e insolito paesaggio fatto di sole e di neve sulle montagne, che la donna vede per la prima volta (perché “di montagne essa sapeva dai libri nomi e cifre d’altitudine, e la neve, quando nevica in Puglia, non si va a scuola” 10), e ancora di un “viale fiancheggiato di palme”, mentre questo meraviglioso paesaggio, dicevo, le sembra “il paradiso terrestre”, “un memorabile paradiso”, la città di provincia, dove ella viveva, invece, “pare fatta ad umiliazione della giovinezza, dove anche la neve, giungendo così di rado, non viene senza squallore” (11).

Qui insomma, per riprendere un concetto di Jurij Lotman, assistiamo alla simulazione “in senso spaziale [di] concetti che di per sé non hanno natura spaziale” (12). Una coppia spaziale infatti (città del Sud / città del Nord) è messa in relazione con concetti di altra natura, esistenziale (infelicità/ felicità) e temporale (passato / presente). Il motivo dell’opposizione Sud-Nord si caricherà poi, com’è noto, di ben altre implicazioni di tipo storico, sociale, morale, antropologico, fino a diventare uno dei temi centrali dell’opera di Bodini.

Anche in Restauri non cambia quindi l’atteggiamento negativo dello scrittore nei riguardi della città d’origine, legata qui, per di più, a un evento luttuoso, come la morte del padre e al senso di vuoto che egli lascia, aggravato anche dalla fine del rapporto privilegiato e protettivo con la madre.

Di Lecce comunque, e in particolare di una zona del centro cittadino, compare già, in questo racconto, una descrizione tipicamente bodiniana con personaggi e oggetti che ritroveremo tante altre volte nella sua opera. Si tratta della descrizione di un suggestivo “itinerario” che lo scrittore-bambino, accompagnato da una zia, segue per arrivare alla casa dei nonni, ricostruito a posteriori proprio attraverso un paziente “restauro” della memoria:

prima una via ossuta dove una morbida suora silenziosamente schiude un uscio; più in là un sarto canta e sforbicia a vuoto a prova del taglio, e s’ode ancora dopo la svolta in una piazza bianca e restia, in mezzo a cui spicca una giovane palma, con la freschezza d’un getto d’acqua […]. S’entra in una viuzza soffocata dal fianco d’una chiesa, il cui nome, dei Teatini, colpiva, così straniero e irriducibile al dialetto […]. S’arriva a una via più larga e discontinua, dov’è la facciata barocca della chiesa, coi nidi di colombi nella pietra scolpita, e la casa dei nonni¹³.

Interamente ambientato a Lecce è invece Il fiore dell’amicizia, un singolare romanzo incompiuto o, come preferisce giustamente definirlo Donato Valli, che ne ha curata la pubblicazione nel 1983 (14), un “tentativo di romanzo”, che, in base ai dati interni, deve essere collocato, a mio avviso, intorno al 1943-44, cioè al periodo leccese, caratterizzato dal graduale superamento dell’ermetismo e dall’impegno di tipo prevalentemente politico. Qui l’autore-narratore rievoca, in una sorta di recupero del tempo perduto, le vicende, di carattere autobiografico, di un gruppo di amici, quasi dei felliniani “vitelloni” ante litteram, che consumano la propria giovinezza, come ha scritto Oreste Macrì, tra “l’Inutile’ d’amorazzi e puri amori, bar, notti girellone, biliardo e vacui inganni del cuore” (15)

L’azione si svolge infatti nel 1933 a Lecce, della quale vengono nominati e a volte descritti molteplici luoghi: la piazza principale, il castello di Carlo V, le stradine del centro, come la scomparsa via San Marco, i vari bar e caffè, il teatro-cinema San Carlino, anch’esso scomparso, a cui è dedicata una gustosa divagazione, gli alberghi, la villa comunale e, un po’ più in periferia, il collegio dei Gesuiti, il convento dei Passionisti, il viale della stazione.

In questo romanzo però la città è ancora semplicemente lo sfondo, un po’ anonimo e privo di fascino, delle vicende narrate. L’autore manifesta apertamente anzi la sua “scontentezza” per tante cose che “conosceva e detestava di quel paese, una scontentezza secca e irrequieta, che gira a folle fra le cose, coltello cocomero palme, e poi pane, vino pietra di tufo, e la miseria i gridi delle rondini ecc. ecc.” (16)

D’altra parte, i riferimenti a monumenti e luoghi cittadini, che pure, come s’è detto, non mancano, denotano ancora un senso di rifiuto, di incomprensione da parte dello scrittore. È il caso, ad esempio, della descrizione del castello di Carlo V, definito “un tozzo edificio schiacciato e ingombrante nel cuore della città” (17), alle spalle del quale una volta si svolgevano sfide mortali tra elementi della malavita locale e che per- ciò conservava ancora in quegli anni, negli anni a cui si riferisce la narrazione, un “fosco alone”.

Nella rappresentazione che ne fa qui Bodini insomma, Lecce non ha ancora, come invece avverrà in seguito, una sua specificità che la possa distinguere da tante altre città di provincia meridionali, alle quali è accomunata dalla noia, dalla monotonia della vita, emblematizzata quasi nel rito della passeggiata serale dei suoi abitanti nella piazza principale, descritta molto efficacemente nel seguente brano:

Che ne è di quegli uomini che ogni sera, vestiti di nero, passeggiavano nella piazza da soli o in piccoli capannelli, ecc. ecc.? […] Su questo marciapiede, nel senso più lungo nereggiava quella folla serale, andando avanti e indietro e fermandosi ogni volta sull’orlo del marciapiede prima di tornare […]. Ma quel mortificante spettacolo di quella passeggiata serale, di ogni sera per anni e anni, aggiuntavi la farsa luttuosa di quegli abiti neri e la mancanza totale d’una donna che interrompesse la monotonia della vista, nonché la minuziosa perfezione di quella abitudine: con la fermatina ogni tanti passi e la sosta più lunga alla fine del marciapiede, prima di voltare, e l’occhiata all’orologio, tutto ciò mi dava da pensare, contrastando con la mia oscura opinione sulla riuscita d’un uomo (18).

Tutt’al più, in questo romanzo giovanile, si possono rinvenire delle anticipazioni di motivi, che saranno all’origine della riflessione più matura di Bodini. Uno di questi motivi è rappresentato, ad esempio dalla “lontananza” di Lecce dai grandi centri nazionali (che anticipa quello della “separatezza” del Sud dal resto dell’Italia), lontananza che induce i suoi abitanti a un senso di sfiducia e di disincanto nei confronti della politica:

Ma in generale alla gente la politica non importava proprio nulla. Valeva la pena di mangiarsi l’anima per un governo lontano che non sapeva neanche che noi esistevamo, e per il quale tutta intera la nostra città non era altro che un nome su una carta geografica? (19)


Così pure qui sono messe in rilievo per la prima volta certe caratteristiche negative dei leccesi, come la “mania del pettegolezzo”, la “naturale ed inutile sottigliezza”, la ‘malignità”, caratteristiche però che nei racconti della maturità, come vedremo, saranno intimamente collegate all’ambiente descritto.

Il motivo dell’opposizione città del Nord/città del Sud, che abbiamo già trovato in Restauri, ritorna in un altro racconto, intitolato Il gobbo Rosario (20), di qualche anno posteriore al Fiore dell’amicizia, con cui ha in comune il personaggio del gobbo che gli dà il titolo. Questo racconto, al contrario del romanzo, non è ambientato, nemmeno in parte, a Lecce, bensì in una città del Nord, indicata con l’iniziale B. che sta molto probabilmente per Bologna, dove il protagonista, Vincenzo, si trasferisce da Lecce, qui indicata invece con l’iniziale Z°,  per frequentare l’Università e dove ha una difficile relazione con Aurelia, una ragazza del luogo, un po’ sfuggente e misteriosa.

Anche qui però, come in Restauri, viene istituito un rapporto di netto contrasto tra l’ “estrema città di provincia del Sud”, verso la quale Vincenzo provava “avversione” per “l’invidia degli anni che credeva di avervi sciupato, e la grande città del Nord, che gli sembrava “così diversa sotto tanti aspetti dalla sua che a volte gli veniva fatto di sentirvisi come in terra straniera”.

Ma in questo racconto sembra esistere, nonostante tutto, un oscuro legame tra il giovane protagonista e la città d’origine, che è rappresentato proprio dalla figura del gobbo Rosario, un navigato e scaltro barbiere, nonché proprietario di un teatro leccese, il San Carlino, nonché gestore, se così si può dire, di un giro di prostituzione collegato a quel teatro. Qui, insomma, lo spazio della città si trova associato, anzi addirittura “incorporato”, per usare un termine di Bourneuf e Ouellet (21), a un personaggio, che con il suo repellente aspetto fisico sembra quasi l’incarnazione dello spirito maligno e pettegolo di essa. E a questa caratteristica, già emersa nel Fiore dell’amicizia, si allude varie volte nel testo (“il turbamento per quell’incontro sgradevole che gli aveva fatto respirare la stessa aria di maligna volgarità che era propria di Z°”; “troppo bene conosceva l’indole indiscreta dei suoi concittadini”). Ciò significa che il legame con la città d’origine continua a condizionare negativamente, anche lontano da essa, la vita di Vincenzo, quasi come una maledizione, condannandolo in questo caso alla sconfitta e alla solitudine.

[In A.L. Giannone, Scrittori del Reame. Ricognizioni meridionali tra Otto e Novecento, Lecce, Pensa Multimedia, 1999, pp. 65-80]

NOTE

1 V. BODINI, La luna dei Borboni, 8, in Tutte le poesie (1932-1970), a cura di O. Macrì, Milano, Mondadori, 1983, p. 104.

2 ID, Futurismo a Lecce?, in “Voce del Popolo”, a. 49, n. 14, 2 aprile 1932, poi in A.L. GIANNONE, Bodini esordiente e la “Voce del Popolo”, in ID., La “permanenza” della poesia. Studi di letteratura meridionale tra Otto e Novecento, Cavallino di Lecce, Capone, 1989, pp. 65-81.

3 Ibid.

4 V. BODINI, Paesaggio letterario, in “Voce del Popolo”, a 49, n. 5, 30 gennaio

1980, poi in A.L. GIANNONE, Bodini esordiente e la “Voce del Popolo”, cit.

5 Su questo periodo dello scrittore si rinvia a A.L. GIANNONE, Bodini prima della Luna, Lecce, Milella, 1982, pp.41-53.

6 Sul n. 13 (a. 1), dicembre 1940.

7 Sul n. 7 (a. 1), 5 maggio 1941.

8 La lettera è citata da A. DOLFI, Autobiografia e racconto: storia di una scrittura negata, in AA. VV., Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, a cura di O. Macri, E. Bonea, D. Valli, Calatina, Congedo, 1984, p. 429, nota 11.

9 R. BOURNEUF-R. OUELLET, L’universo del romanzo, Torino, Einaudi, 1976, p. 96.

10  V. BODINI, Restauri, in La lobbia di Masoliver e altri racconti, a cura di P. Chiarini, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1980, p. 15.

11 Ivi, p. 16.

12 J.M. LOTMAN, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, p. 262.

13 V. BODINI, Restauri, cit., p. 19.

14 In “SudPuglia”, fasc. 1, marzo 1983, poi in V. BODINI, Prose inedite, Galatina,

Editrice Salentina, 1985, pp. 61-127.

15 O. MACRI, Introduzione a V. BODINI, Tutte le poesie, cit., p. 26.

16 V. BODINI, Prose inedite, cit., p. 80.

17 Ivi, p. 92.

18 Ivi, p. 66.

19 Ivi, p. 113.

20 In “L’immaginazione”, n. 12, dicembre 1984.

21 R. BOURNEUF-R. OUELLET, L’universo del romanzo, cit., p. 101.

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