Di mestiere faccio il linguista 13. Chi è il padrone della lingua

Padroni della lingua sono coloro che la parlano e la scrivono; in questo caso per indicare la persona affetta da covid gli italiani non hanno scelto covidoso. Pur se la parola esiste, è documentata già nei primi secoli della nostra lingua, in forma diversa: «covidoso», «cubitoso», «cupidoso», «gubitoso». Ma ha un significato ben diverso (il covid non esisteva, a quei tempi, anche se imperversavano malattie terribili): l’aggettivo significa ‘cupido’, ‘avido’, ‘bramoso’ (discende dal lat. «cupidus» ‘cupido’). Ecco qualche esempio. Bonvesin da la Riva, poeta milanese di fine Duecento,  ammonisce l’uomo misericordioso affinché «non sia avar ai poveri del ben ke Deo g’à dao / dra termporal pecunia non sia trop cubitoso» (‘non sia avaro verso i poveri del bene che Dio gli ha dato, non sia troppo avido di denaro’). Giovanni Villani, cronista fiorentino della metà del Trecento, ammiratore di Dante, assicura che Carlo d’Angiò, re di Francia, «largo fu a’ cavalieri d’arme, ma covidoso d’aquistare terra, e signoria, e moneta, d’onde si venisse, per fornire le sue imprese e guerre» (‘fu generoso verso i suoi cavalieri, ma avido di possedimenti, signorie e denari, senza badare alla loro provenienza, per sostenere le sue imprese e le sue guerre’).

La forma ricorre anche, con diversa funzione grammaticale, in un affascinante testo di Boccaccio che, per l’innovativa invenzione linguistica e per la vivacità espressionistica, rappresenta un unicum nella nostra letteratura (è stato impeccabilmente studiato e pubblicato da Francesco Sabatini, maestro di linguistica e di filologia, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, noto anche al grande pubblico per la rubrica televisiva di Rai1, domenica mattina). Si tratta di una lettera, composta da Boccaccio ventiseienne, a Napoli, dove si era spostato da Firenze per seguire gli affari della propria famiglia. Boccaccio, attratto dalla caleidoscopica vita napoletana, utilizza in una lettera il dialetto napoletano perfettamente assimilato e trascritto per presentare fatti e situazioni che lo affascinano. Lui, esponente della grande tradizione toscana, con una geniale sperimentazione decide di scrivere in napoletano, lingua del popolo che lo circondava, ascoltata quotidianamente e ormai diventata anche la sua lingua, dopo anni di acclimatazione in città.

Nella lettera Boccaccio informa un altro fiorentino, Franceschino de’ Bardi (in quel momento a Gaeta), che Franceschino è diventato padre di uno «bello figlio mascolo» nato dalla sua amante Machinti. La nascita è festeggiata da una brigata di amici e amiche. In una vivacissima scena si descrive il battesimo del neonato. Ci sono i compari, c’è il gruppo di donne amiche: «Marella Cacciapulce, Catella Saccoti, Zita Cubitosa e Judettola da Porta Nuova e tutte chille zitelle della chiazza nuostra» (‘tutte quelle ragazze della piazza nostra’). La parola «zitella» non ha l’odierna connotazione spregiativa significa semplicemente ‘ragazza’, non ‘donna nubile d’età avanzata, dalla femminilità appassita e di umore bisbetico’.  Le nominate e molte altre, più di cento, ben vestite e agghindate, tutte lì radunate. Concludendo: «Ca nde sia laudato chillo Dio ca lle creao, accò stavano bielle! Uno paraviso pruoprio parse chillo juorno la chiazza nuostra»  (‘che ne sia lodato Dio che le creò, com’erano belle! Un vero paradiso parve quel giorno la piazza nostra’).

Si chiama Zita Cubitosa, come abbiamo visto prima, una delle partecipanti alla festa. In antico italiano (e ancor oggi nei dialetti meridionali, dalla Campania fino alla Sicilia, passando per il Salento e la Calabria) il termine «zita» significa ‘ragazza da marito, promessa sposa’. Zita Cubitosa è dunque un “nome parlante” (in cui un sostantivo e un aggettivo originari diventano un nome e un cognome): vuol dire ‘ragazza vogliosa’, con sorridente accezione sessuale, che ben si attaglia al clima di festa con cui le  «zitelle della chiazza» napoletana partecipano al battesimo del figlio di Machinti e Franceschino de’ Bardi. Per un processo universale (valido per tutte le lingue), capita che un aggettivo possa diventare un nome o un cognome. Significa originariamente ‘(donna) che deve essere amata’ l’attuale nome proprio Amanda; «Comunardo» è un nome proprio di matrice anarchica e libertaria che richiama la «Commune»  parigina, forma di gestione operaia dell’economia; è diminutivo di «ombra» il nome proprio «Ombretta»; ecc.  Sono originariamente aggettivi molti cognomi oggi diffusi in Italia come Benvenuto, Bianco, Esposito, Gentile, Milanese, Napolitano, Russo, Valente, Vetere, e mille altri.

Anche «covidoso» (e varianti) può diventare cognome. Non solo in Boccaccio, quando parla di Napoli. Il sito https://www.cognomix.it/mappe-dei-cognomi-italiani attesta che attualmente in Italia esistono oltre 140 famiglie con il cognome Gubitosa (in prevalenza in Campania) e oltre 150 famiglie con il cognome Gubitosi (in prevalenza in Campania).

L’agg. covidoso esiste, ma non c’entra con il covid. Per la nuova malattia sono stati creati nuovi aggettivi, «covidico» e «covidotico». E va bene così.

                                                                         [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 luglio 2023]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (sesta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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