Ada e Daria sono madre e figlia. Ma Daria non è una figlia come le altre, perché ha un destino diverso, perché la natura l’ha voluta in un certo modo. Ha una malformazione cerebrale che le impedisce di parlare, muoversi, sedere diritta e, dunque, la sua vita non può essere come quella delle altre bambine. Così Ada non è semplicemente una madre. È funzione vitale, corpo in movimento per colei che il movimento non può conoscerlo: “Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura”. Ada non teme di usare parole vere come malattia, disabilità: le parole evocano le immagini. Nominare significa mostrare, rendere nitido, intaccare un fenomeno di alterazione e raddolcimento della verità che è intrinseco nella nostra società. Allora Ada non teme di dare una rappresentazione delle mostruosità che attendono le esistenze di chi, come lei, è la madre di una bambina con disabilità: “A volte quel che vedo mi fa orrore. (…) Donne con gli occhi cerchiati da notti insonni, le braccia segnate dai graffi e dai morsi dei figli, i capelli che non vedono un parrucchiere da mesi. O, all’opposto, madri eroine: quelle con i superpoteri, truccate e vestite di tutto punto a qualsiasi ora del giorno, che non perdono un colpo, non mostrano il minimo cedimento. E poi madri iene, sempre incazzate, perennemente in trincea perché “guai a chi mi tocca mio figlio”. Erano così anche prima? E io, com’ero prima? E come sono diventata? Non voglio essere come loro”.
Il “memoir” di Ada D’Adamo è un viaggio intorno al corpo. Da danzatrice e studiosa dell’arte del danzare, laureata in Discipline dello Spettacolo e diplomata all’Accademia Nazionale di danza, era un’osservatrice del corpo umano in movimento, conosceva il senso della determinazione, della disciplina, del controllo totale di ogni parte del proprio corpo, perseguiva un ideale preciso di bellezza. L’arrivo di Daria ha cambiato radicalmente la percezione di tutto questo. Daria non ha affatto disciplina del proprio corpo. Daria urla, trema, si agita in convulsioni, è del tutto fuori controllo. Ada, con Daria, ripensa questo ideale di perfezione e bellezza perché non danza più da sola. Inizia a danzare con Daria. È una danza a due corpi, una danza che avviene per osmosi, ogni giorno. C’è un libro che tutti, almeno una volta, dovrebbero leggere, che rientra in una letteratura della disabilità di cui, ora, anche D’Adamo fa parte: “Mister Butterfly” di Howard Buten. Un clown prende in affidamento quattro bambini con disabilità, tra i quali c’è Tina, che non può camminare. La danza sarà la sua cura: “Non potevo chiedere di più. Lasciai cadere l’altoparlante e corsi da lei, la strinsi tra le braccia e la sollevai in alto, abbracciandola mille volte in una, ormai libero di singhiozzare, e le accarezzai i capelli ricci e sudati e li baciai ancora e ancora, girando come una trottola con lei tra le braccia finchè il mondo non si fermò e non ci spuntarono le ali”. Anche Daria, non si muove, non cammina, non parla. Ma grazie a sua madre, grazie al suo romanzo, Daria ha nel nome un apostrofo che la “trasforma in sostanza lieve e impalpabile”. Daria vola.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 luglio 2023]