René Char. Ridate loro quel che in loro più non è presente

È il tema, caro al poeta, della presenza di quel che è assente, della permanenza nel declino delle stagioni, della tenuta del desiderio nel cuore della finitudine. Dall’assenza muovono figure, prendono il campo del visibile, rivivono nel nuovo tempo, nel vento delle nuove stagioni, con il loro corpo, il loro volto, il loro sentire. È la poesia che sottrae alla prigione dell’oblio quel che è stato, libera dalle ceneri quel che è perduto. E si mette in ascolto della terra, del suo corpo vivente. In ascolto, cioè, di quel ritmo che nella natura sostiene l’apparire, un ritmo che resiste nel cuore delle stagioni, del loro succedersi, un ritmo che partecipa di quell’essere che è principio, energia, fondamento. Char eracliteo. Un frammento di Eraclito potrebbe fare da esergo per tutta l’opera poetica di Char: “Il mondo di fronte a noi – il medesimo per tutti i mondi – non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivente, che divampa secondo misura e si spegne secondo misura” (frammento A 30 dell’edizione Colli). Per Char un altro dei suoi “ascendants” – così egli chiamava i personaggi tutelari con i quali intratteneva una “conversation souveraine” – è Rimbaud. È in dialogo con il poeta adolescente che Char fa trascorrere nei suoi versi – da Feuillets d’Hypnos a Les Matineaux, da La parole en archipel Le Nu perdu, da Aromates chasseurs ai Chants de la Balandrane e oltre – una costante meditazione sulla poesia, sulla poesia intesa non come strumento del dire ma come suono, essa stessa, del tempo e della vita, come “perpetuo presente”, come luogo di compresenza del passato e del futuro, come lingua che mostra se stessa e alla quale inessenziale è l’esegesi. 

“Poiché nulla fa naufragio, nulla è attirato dalle ceneri”, dice un verso centrale della poesia sopra riportata. Nel vuoto può rifiorire il desiderio. Sapere ascoltare il respiro della terra, il suo “svolgersi verso il frutto”, vuol dire poter resistere nello scacco, anche quando tutto sia stato perduto. La parola poetica, se è in accordo con il ritmo della physis, accoglie nel suo suono l’accaduto e il non accaduto, il visibile e l’invisibile, il già stato e il non ancora. Accoglie anche, nel suo suono, il rumore dei corpi celesti: ecco Orione ad apertura di Aromates chasseurs, Orione “pigmenté d’infini et de soif terrestre”. Per questa “fisica celeste”, un altro poeta, Paul Celan, dedicherà a Char la poesia Argumentum e silentio, dove in un verso la parola poetica è definita come la “parola sorvolata dalle stelle” (das sternüberflogene Wort). 

René Char si sottrasse presto alle suggestioni delle poetiche surrealiste, per avviare una propria, singolare ricerca poetica, in dialogo con i classici della poesia occidentale (Hölderlin, Baudelaire, Leopardi, tra questi). 

Al grande rilievo che la sua poesia ebbe nella cultura francese del Novecento non fu estranea l’avventurosa e attivissima partecipazione del poeta alla Resistenza con il nome di capitano Alexandre: i Fogli d’Ypnos, tradotti in italiano da Vittorio Sereni, erano frammenti poetici affidati a fogliettini casuali e nascosti in un muretto prima del notturno volo del comandante partigiano in Algeria, un volo salutato dai fuochi levati dalle diverse postazioni di resistenti nel maquis. Allo stesso iniziale interesse di Caproni e Sereni per la poesia di Char non fu estranea la vicenda resistenziale. Ma via via, lungo il percorso della traduzione, i due poeti italiani ritrovarono in Char un vastissimo ventaglio di temi, di forme, di ritmi, e un’idea della poesia non riconducibile a poetiche predefinite. La traduzione di Char, per l’uno e per l’altro, si trasformò in un dialogo con la figura del poeta, e con la sua poesia.

L’energia poetica di Char trascorre tra il verso e la prosa: ogni misura è piegata alla necessità del dire. Davvero la forma è tutt’uno con il pensiero, l’immagine con la misura, il suono con il senso. Viene in mente un passaggio di Leopardi a proposito del rapporto tra il verso e la prosa: “L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza della poesia né del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose… L’uomo potrebb’esser poeta caldissimo in prosa…” (Zibaldone, 14 settembre 1821). Il verso di Char dialoga con la prosa, diventa prosa, e resta verso dentro il movimento della prosa. Frammenti di un dire poetico che coinvolge il lettore, e lo impegna nell’ascolto di un pensiero in cui visione fantastica e considerazione morale si sovrappongono. Una sapienza poetica trascorre nel dire di Char, insieme alla costante convinzione che la poesia è figurazione di una presenza e restituzione di una perdita. Da quella sapienza muovono inviti come quello di non sopprimere la lontananza, di tenere aperto il dialogo con le sue iridescenze. O come un altro invito, quello di continuare l’erranza appena intravista la dimora. 

Quando Heidegger chiede a Char, nel 1966, se gli può dare un’interpretazione della frase di Rimbaud “la poésie ne rythmera plus l’action; elle sera en avant”, il poeta, nelle “réponses interrogatives” indirizzate al filosofo, fa dell’azione e della poesia i personaggi di una drammaturgia essenziale e necessaria: l’essere “en avant” della poesia nei confronti dell’azione è responsabilità del dire e insieme azzardo verso l’impossibile. La poesia come lampo che precede il tuono, punta di una freccia che presuppone l’azione come arco. La poesia come azione veggente. Molti altri luoghi del ventaglio di sensi possibili il poeta indica in quell’“en avant” di Rimbaud, dispiegando così un’ermeneutica della poesia, del suo linguaggio. 

Potremmo dire – a voler cercare un provvisorio compendio – che la poesia di Char è il tempo e lo spazio per un ascolto del ritmo della physis e l’apertura di un domandare senza fine, sul fondo di un nesso strettissimo tra conoscenza e immaginazione. 

[“DoppioZero” del 7 Luglio 2023]

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