La bellezza sommersa dalla superficialità che dilaga

La bellezza è proprietà del tempo: della bellezza il tempo fa quello che vuole: può lasciarla in dono o può graffiare la faccia, portarsi via i capelli, o imbiancarli.

E’ nella relazione con il tempo che la bellezza assume significato: nel contemperarsi e nel conformarsi  all’età e alle storie di ciascuno, alle sue felicità e anche ai suoi dolori, a quello che ciascuno ha avuto e a quello che ha dato.  La bellezza si compone anche delle ferite, delle cicatrici che il tempo lascia fuori e dentro di noi, a testimonianza del percorso della nostra esistenza. Così la bellezza è quello che resta nel fondiglio di ogni giorno che viviamo. Se non è questo è un inutile involucro, oppure è l’imbroglio di una misera  illusione.

E’ bella la Torre dell’Alto a strapiombo sul mare; è bello il mosaico di Pantaleone, come il rosone della cattedrale di Trani; sono belle le chiese di Lecce che non si costruiscono più, forse perché nessuno è più in grado di farlo; sono belle le vie quando cala la controra, prima che siano invase dallo sciame che si esprime con il brusio e senza la parola; è bella una marina d’inverno prima delle invasioni. Forse è bello tutto quello che si manifesta nella sobrietà, nell’essenzialità.

Abbiamo rinunciato alla bellezza delle cose – forse anche delle creature- per sostituirla con la forma effimera, con la figura ammiccante. Abbiamo rinunciato alla seduzione della bellezza  per l’adescamento del falso, dell’artificioso. “L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”, dice Fëdor Dostoevskij.

Però il pane è bellezza, la scienza è bellezza: l’uno e l’altra sono la combinazione sapiente del pensiero e della mano dell’uomo e degli elementi della natura. Senza pane e senza scienza non ci può essere bellezza perché non si sopravvive. Non sarebbe questo, dunque, il problema. Il problema sarebbe l’oscuramento della bellezza, il contrasto e la contraddizione che talvolta si crea tra la forma e l’artificio.

Una volta a qualcuno venne la fantasia di deturpare con la luce dei fari una chiesa solitaria. Senza pensare, senza capire che da millenni quella chiesa apparteneva alla luce sfolgorante del sole, o alla tenerezza di quella della luna. O al buio. Perché è metafora del sacro che resiste alla luce e al buio della storia.

Era un oscuramento della bellezza attraverso il disequilibrio artificiale.

Se non è la bellezza che può salvare il mondo, certamente può renderlo un po’ meno banale, solito, mediocre.

In uno dei suoi  meravigliosi, sensuali, allucinati “Quattro poemetti”,  il poeta greco Ghiannis Ritsos, fa dire a Crisotemi: soltanto l’amore e la bellezza resistono un poco al tempo. Pare quasi un assurdo che l’amore e la bellezza, che  forse sono le più fragili condizioni, siano quelle che riescono a resistere all’assalto del tempo. Eppure è così. Altrimenti cos’altro. Forse Crisotemi vuole dire che l’amore nella sua essenza, nella sua unicità e irripetibilità,  riesce a  sopravvivere anche a colui  che ha amato, a colui che è stato amato, e che la bellezza si libera dalla mano e dall’identità di chi l’ha creata per esistere indipendentemente. 

Forse ha poco senso che tutti sappiano chi abbia generato la facciata di Santa Croce. Forse l’unico senso è che ciascuno sbalordisca davanti alla sua pietra.

   [“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 16 luglio 2023]

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