In Una settimana eccezionale l’autore prosegue nella direzione della sua prima raccolta, sia dal lato tematico che da quello stilistico, anche se è evidente una maggiore distensione narrativa rispetto alla secchezza, alla brevità della maggior parte dei racconti di Le domeniche di Napoli. De Jaco insomma incomincia a costruire delle storie più articolate, a delineare più compiutamente i personaggi. L’ambiente dei racconti è sempre quello popolare napoletano con i suoi problemi, ma anche con la sua inesauribile carica di invenzione, con la sua vivacità, il suo colore. Il racconto che dà il titolo al volume, ad esempio, è la storia della preparazione della festa di Piedigrotta da parte di due famiglie napoletane: quella di Vincenzo e dei suoi fratelli, tutti disoccupati, che cercano di sfruttare la grande festa per fare un po’ di soldi, e quella di Maria, innamorata di Vincenzo, figlia di un ferroviere. Breve viaggio di nozze è invece la storia di un breve viaggio di nozze appunto, compiuto da due giovani che si sposano a Napoli e trascorrono un brevissimo periodo presso certi parenti dello sposo a Ischia. In entrambi i racconti emergono i problemi dei protagonisti, legati soprattutto al difficile inserimento nel mondo del lavoro, le loro speranze, le loro delusioni. Di argomento più strettamente politico è invece il terzo racconto, Novità nella casa senza porte, che affronta il problema della cosiddetta “legge-truffa” del ’53.
Il terzo libro di De Jaco, Viaggio di ritorno, è un breve romanzo che appare nel 1966 nella collana “I coralli” di Einaudi, ma la cui stesura risale a dieci anni prima, al 1956. Assai interessante, anche in questo caso, è una lunga lettera (un vero e proprio saggio critico) che Calvino gli aveva scritto prima della pubblicazione dell’opera, dandogli alcuni suggerimenti, che lo scrittore magliese accetta14. Il libro racconta la storia di una famiglia napoletana, che si ritrova riunita per festeggiare il vecchio padre operaio che va in pensione. Ognuno dei componenti di questa famiglia ha una sua vicenda, a volte dolorosa, come Paolo, uno dei figli, il quale è rimasto cieco dieci anni prima in seguito alla scoppio di una bomba, in una lotta di quartiere tra sostenitori della Repubblica e della monarchia. Un altro dei figli del vecchio operaio, Vincenzo, è invece un funzionario comunista che ritorna a Napoli, espressamente per questa occasione, e ritrova la donna con cui aveva avuto una relazione tanti anni prima. La vicenda è collocata proprio nel 1956, nei giorni del XX Congresso dell’URSS, quello della cosiddetta destalinizzazione, che, com’è noto, rappresentò per molti militanti della sinistra un momento di crisi, di caduta delle certezze. E gli echi si avvertono anche nelle lunghe discussioni intavolate dal protagonista con altri compagni di partito. In questo libro l’abilità di De Jaco sta proprio nel fatto di essere riuscito a intrecciare le vicende private dei singoli personaggi con le vicende collettive, con la Storia con l’iniziale maiuscola. Così i dubbi, le angosce esistenziali dei protagonisti si fondono con i loro dubbi di natura ideologica, politica. Decisivo risulta, a questo proposito, l’incontro di Vincenzo con la donna amata da giovane, la quale gli fa sentire, a un certo punto, tutta la sua estraneità alla vita del quartiere, alle persone da lui conosciute un tempo. È, questo, un motivo ricorrente nella narrativa di De Jaco che ritroveremo anche in un racconto compreso nel libro La casa di tufo.
Un’altra opera in cui il privato s’intreccia col politico è Con finale in prigione, apparsa nel 1975 presso l’editore Marsilio. Anche questo romanzo rispecchia fortemente una fase decisiva della nostra storia più recente. Mentre Viaggio di ritorno ci riportava al 1956, l’anno della destalinizzazione e dei fatti d’Ungheria, qui siamo invece nel pieno degli “anni di piombo”, gli anni della tensione, dei sospetti, del terrorismo. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte a un intreccio complicato, ricco di avvenimenti e di colpi di scena. Qui c’è la storia di un commesso viaggiatore che si trova coinvolto, involontariamente, in fatti a cui è estraneo, tanto più grandi di lui. Prima è implicato in una rissa nell’albergo dove alloggia, poi in un tentato omicidio di un poliziotto, del quale alla fine viene accusato. Sullo sfondo ci sono le elezioni del presidente della Repubblica con i loro meccanismi rituali, ripetitivi e un clima di tensione e di sospetto che si riverbera sulla vicenda che viene narrata. Non a caso uno dei momenti più drammatici del libro è proprio la descrizione di un corteo di protesta di disoccupati con la feroce repressione attuata dalla polizia, soprattutto nei confronti di un mutilato. La struttura, lo stile di questo romanzo si differenziano notevolmente rispetto a quelli delle prime opere. D’altronde siamo ormai in un periodo assai diverso anche dal lato letterario. Dopo la crisi del neorealismo, c’è stata l’avventura della neoavanguardia, che influenza quest’opera almeno nell’aspetto formale. La narrazione si fa infatti meno lineare, la prosa assume caratteri più sperimentali. De Jaco fa ricorso frequentemente al cosiddetto discorso indiretto libero, ricco di proposizioni interrogative, che riesce bene ad esprimere le incertezze, i dubbi, le perplessità del protagonista su una realtà così angosciosa e inafferrabile.
Dopo Vocazione agit-prop, un romanzo di evidente carattere autobiografico, del quale alcune pagine sono state riprese nel più recente La casa di tufo, De Jaco ha pubblicato tre libri che rientrano nel genere del reportage, del diario di viaggio: Diario di un ospite ingrato (Reggio Emilia, Ciminiera, 1981), resoconto di un viaggio nell’URSS, il paese del “socialismo reale”; Nel giardino del cattivo amministratore (Bari, Levante, 1983), diario di un viaggio in Cina, fatto insieme ad altri cinque scrittori italiani, tra i quali Luzi, Sereni, Arbasino e Malerba; e infine Nica libre (Roma, Il Ventaglio, 1984), reportages dal Nicaragua. Anche in queste opere l’autore è mosso dal desiderio di conoscenza critica di una determinata realtà, al di là di quelle che possono essere le immagini ufficiali di un paese, di una nazione. Egli perciò rivolge spesso l’attenzione a fatti, a episodi che possono rivelargli un’immagine diversa, più autentica dei paesi visitati.
I due ultimi libri di narrativa di De Jaco sono stati entrambi pubblicati dalle Edizioni Erreci di Maglie: La casa di tufo nel 1985 e Il tappeto persiano nel 1991. Nel Tappeto persiano, accanto a testi più recenti, ci sono racconti, come Carmela e il seduttore e quello che dà il titolo alla raccolta, apprezzati già da Calvino in una lettera del 21 marzo 1962. La casa di tufo corrisponde invece a una vecchio progetto, parallelo al primo libro del ’54, quello cioè di raccogliere in un volume i racconti di argomento meridionale, anzi salentino, accanto a quelli di argomento napoletano, già riuniti in Le domeniche di Napoli. E infatti l’autore, nell’introduzione, scrive che il libro “raccoglie tutti o quasi i testi narrativi che riguardano il Mezzogiorno, e in particolare il Mezzogiorno contadino che poi per noi emblematicamente si identifica con ‘M.’, cioè con Maglie e il Salento”15. Ma più avanti precisa che
io stesso scrivendo intendevo “M.” e non Maglie perché intendevo descrivere non quello che mi era passato sotto gli occhi mentre sostavo sulla porta di casa dei miei ma quello che ero andato cercando dappertutto, come un sapore del vento, e che chiamavo Sud, Mezzogiorno: un panorama che, per essere simbolico di una condizione di miseria e di immobilità (diciamolo pure: di arretratezza) contadina riguardante tutto il Mezzogiorno, poteva – e doveva – poi somigliare a M. ma anche a N., a P. e via via seguitando per tutte le lettere dell’alfabeto e oltre 16.
Non c’è quindi, in De Jaco, l’intenzione di una pura registrazione documentaria della realtà paesana, ma la ricerca del minimo comune denominatore della realtà meridionale, di certe costanti, di certi elementi costitutivi sociali, antropologici, economici anche, del Mezzogiorno d’Italia. La casa di tufo è suddivisa in due parti. La prima, Ricordo di una lontana giovinezza, comprende appunto alcuni racconti di ambientazione meridionale, già apparsi su giornali e riviste tra il 1956 e il ’61, e uno più recente uscito sul “Quotidiano” di Lecce. La seconda parte, Sui passi perduti, raccoglie invece scritti di carattere prevalentemente saggistico, o risposte a questionari, estremamente importanti per delineare la poetica di De Jaco, cioè le sue idee, la sua concezione della letteratura. Ho già richiamato, in precedenza, alcuni di questi scritti, riguardanti il giudizio sul neorealismo, la funzione di conoscenza critica della realtà a cui deve assolvere la letteratura per lo scrittore, il ruolo di Napoli per la sua narrativa, il rapporto letteratura-Mezzogiorno. A proposito di quest’ultimo problema, De Jaco, nel 1960, ribadiva il suo impegno, al quale in fondo è rimasto costantemente fedele (e La casa di tufo apparsa nell’85 lo sta a confermare). Così scrive infatti in un significativo brano:
affermiamo essere ancora oggi nella travagliata e difficile realtà meridionale e nell’impegno per la sua radicale trasformazione la matrice dell’azione letteraria di chi abbia qualcosa da dire; e per questo l’impegno realista – in un diretto, esplicito, vigoroso, personale engagement con la realtà che ci circonda – è la base per aprire alla letteratura meridionale (e non solo meridionale) vie valide e niente affatto “attardanti” 17.
Ma vediamo ora più da vicino alcuni di questi racconti. Essi, come ho detto, sono ambientati tutti a “M.”, ma uno anche in un paese della Calabria, Rosano, e riescono ad offrire un’immagine davvero esauriente ed efficace della realtà del Sud, del Mezzogiorno contadino, negli anni Cinquanta, dei suoi principali problemi, come la miseria, l’emigrazione, ma riescono a darci anche un quadro della vita, delle abitudini di vita, dei rapporti tra le classi, tra i sessi fino a una quarantina di anni fa. E perciò essi, oltre a un indubbio valore letterario, ne hanno anche uno antropologico.
Si veda, ad esempio, Tempo d’andare, una delicata storia d’amore tra due giovani, che finisce tragicamente, sullo sfondo appunto del rigido codice di comportamento che regolava i rapporti uomo-donna in un paese del Sud, con i ruoli prefissati, le norme non scritte ma precise e inviolabili. Ed è questo un racconto ricco di delicate notazioni soprattutto nella delineazione della figura della giovane protagonista, Annetta, vittima incolpevole di una situazione di miseria e di abbandono. Oppure, ancora, si legga Addio al mercato (1959), che all’inizio è una sorta di reportage in paese, su certi aspetti come il mercato, la moda, ecc., e poi assume un andamento più decisamente narrativo nella descrizione dell’episodio drammatico che avviene sotto gli occhi dell’io narrante. Sullo sfondo, anche qui, c’è il problema dell’emigrazione che determina situazioni nuove, imprevedibili, spesso con esiti drammatici, come nel caso che viene raccontato (l’omicidio per gelosia di una donna tedesca). O, ancora, Ritorno e fuga (1961), dove invece il motivo principale è quello del ritorno al proprio paese, dopo una lunga assenza, come in Viaggio di ritorno. E anche qui, come in quel libro, c’è il motivo dell’estraneità del protagonista, Andrea, rispetto al suo paese, ai parenti, agli amici d’un tempo, per cui egli decide di ritornarsene dopo appena un giorno di permanenza. Tutto il racconto è pervaso da un senso di tristezza, fin dall’inizio, ambientato in una stazione di notte tra voci anonime, rumori. Questo senso di tristezza aumenta poi con l’arrivo in paese, col riemergere di ricordi legati alla giovinezza, con l’incontro di persone conosciute, a lui ormai inesorabilmente estranee.
In qualche modo – scrive De Jaco – Andrea aveva turbato il loro vecchio equilibrio, il sistema nel quale lui, il figlio lontano, aveva da tempo un posto fisso, estraneo alla famiglia. Non che non gli volessero bene ma, appunto, il loro affetto era ormai legato alla particolare condizione d’emigrato, quasi di morto al mondo, che Andrea aveva scelto una volta per tutte voltando le spalle alla casa, al commercio, agli affetti di Rosano 18.
Altri racconti, più brevi, sono rapidi flashes sull’adolescenza dell’autore, sulla sua precoce vocazione di militante politico o, ancora, sugli anni di guerra visti da un angolo visuale un po’ particolare, il Salento, “un posto remoto dalla guerra”, dove le storie della ferocia dei tedeschi sono “favole”, dove è mancata “la diretta esperienza del fascismo come moto eversore e violento”19. In tutti questi scritti c’è sempre insomma la presenza dello scrittore ideologicamente impegnato, che non rinunzia mai alle sue convinzioni, ma anzi le esprime chiaramente e coerentemente. Significative, ad esempio, in questa direzione, sono le pagine dedicate a “una strana invasione”, che si verificò nel Salento in tempo di guerra, prodotta dall’esercito di alti ufficiali, di generali al seguito del re, ospite del senatore T. di Maglie, dalle quali pagine emerge tutta l’incolmabile distanza tra le popolazioni del Sud e questi strani e alteri personaggi.
Per finire, accennerò ora, come ho detto all’inizio, a un altro aspetto dell’opera di De Jaco, forse secondario rispetto all’attività di prosatore, ma ugualmente interessante e che è venuto, o meglio ritornato alla luce in questi ultimi tempi. Mi riferisco all’attività di poeta, documentata da due recenti libri, Stazioni di posta (Parabita, Edizioni “Il Laboratorio”, 1986) e Dodici lettere da Varna (Napoli, J.N. Editore, 1990). In un articolo dell’84, intitolato La poesia è metalinguaggio, lo scrittore dà alcune utili informazioni sulla sua produzione in versi. Confessa, ad esempio, di avere scritto da giovane “molte poesie, tutte o quasi ‘civili’”, dedicate alla rovina, interna e materiale, della guerra e poi alla pace.
Dopodiché – continua – spezzai la penna, non andai più avanti e mi dedicai tutto alla prosa come a un genere che meglio si addiceva alle cronache del mio popolo che si alzava da terra, si dava ordinamenti nuovi […] per una trentina d’anni non ho scritto più che in prosa […]. E poi… nell’anno del Signore 1983 mi sono rimesso a scrivere poesie 20.
Perché, si chiede lo scrittore, è successo questo? Perché, è la sua risposta, la realtà “ha ormai superato il limite del sopportabile e del comprensibile, non si può che parlarne per metafore, per giochi di parole, per invettive (o se volete per inni – o per cachinni). Il che significa (ma non è sufficiente) far poesia”21. Ecco allora spiegato il ritorno alla poesia, alla quale De Jaco attribuisce dunque la capacità di saper cogliere il reale, l’inafferrabile realtà odierna con gli strumenti che le sono propri.
Stazioni di posta è una sorta di antologia, che rispecchia fedelmente i momenti in cui egli si è dedicato alla poesia. C’è un breve Antefatto, una sezione che comprende versi composti tra il 1946 e il 1956 e ispirati alla guerra, alle lotte operaie. È un tipo di poesia che rientra a pieno diritto, anch’essa come la narrativa di De Jaco, nell’ambito del neorealismo, a cui rimandano, oltre che i motivi, anche i caratteri formali, come le iterazioni, e certa enfasi oratoria (“E scende la sera, la sera / anche su queste case / sulle vie vuote l’azzurra sera”, Per un quartiere distrutto, p. 9).
Le altre sezioni comprendono invece poesie composte in questi ultimi anni, precedute da una Dichiarazione di poetica. Assai spesso l’occasione di queste liriche è costituita dai viaggi e dalla permanenza dell’autore in vari paesi europei (Germania, URSS, Cecoslovacchia, Nicaragua, Spagna). Si tratta cioè di una poesia-racconto, come è scritto in quarta di copertina, o poesia-diario, come forse sarebbe più giusto definirla. Anche alcuni titoli sono significativi: Notes da Leningrado, Tre lettere da Varna, Managua 1984, Leningrado 1985. Questa poesia è da accostare cioè ai libri di viaggio di De Jaco, ai quali ho accennato, sia per le evidenti affinità tematiche, sia perché essa si rifà a un ideale discorsivo e prosastico, lontano dai canoni della lirica pura, ermetica, simbolista, ecc. Tipici sono alcuni nessi colloquiali che l’autore usa: “direi”, “secondo me”, “Che vuoi?”. L’autore però dimostra di saper utilizzare anche certi strumenti tipicamente poetici, la rima, ad es., a cui egli non rinuncia (e spesso compare anche la rimalmezzo), o le similitudini.
Dal lato tematico, queste poesie sviluppano soprattutto delle riflessioni, sul futuro, sulle nuove generazioni, su alcuni avvenimenti della storia recente, che segnano quasi dei personali momenti di verifica per l’autore. Si veda, ad es., la sezione dedicata a Leningrado, una città dove pare che non ci siano più tracce, nemmeno nella memoria degli abitanti, dell’assedio durante la seconda mondiale ad guerra opera dei tedeschi e dell’eroica resistenza: “Leningrado – città di tre milioni / di abitanti, non ha date / nella sua memoria; sono tutti morti / i difensori delle barricate” (p. 51); “È bella Leningrado […] Solo ha dimenticato / il suo dialetto e il suo passato” (p. 55); “Chi porta addosso come una bandiera / il suo passato – non è di Leningrado” (p. 60).
Un’altra sezione del libro, Patria mia, comprende invece una poesia dedicata a Roma, in cui emerge l’immagine di un’enorme città contenitore: “… gli anni / della tua ospitalità / per me e, forse, per due o tre / milioni di travet // come me, accampati / – legione d’Agrimante – / sotto il tuo portone / avviliti servi senza / padrone, larve / di persone // incasellate per stanze / in ogni casermone / di cemento – nelle bare che / han seppellito i cento/ giardini del / tuo passato” (Rome unique objet, p.101). Sempre in questa sezione c’è pure una delle composizioni più belle del libro, Le terre del saraceno, scritta in forma di lettera a un’amica, in cui compaiono alcuni motivi tipici dell’opera di De Jaco, quali il ritorno nella propria terra, il confronto tra passato e presente e un senso profondo di delusione e di insoddisfazione: “Questo è tutto, cara amica. / Dei miei giorni lontani / qui non c’è che la polvere / i trucioli di legno, le / foglie secche, incerto / ordito di venature nell’incartapecorito / volto color ruggine – nessuno può guardare / il mare, oggi, come un infinito di chiare speranze” (p. 105). D’altronde, anche in altre parti del libro affiorano dubbi, angosce esistenziali: “Questa volta ancora / la morte non è venuta / no, non ancora – ma la vita / è finita” (Dovunque, p. 97). Insomma, ancora una volta, il privato si intreccia con il politico, il personale col collettivo, coerentemente a tutto la produzione letteraria di Aldo De Jaco, come ho cercato di dimostrare nel presente lavoro.
NOTE
14 Anche questa lettera di Calvino è stata pubblicata da De Jaco in Storia di un “ragazzo” e dei suoi due “lettori”, cit., pp. 99-100.
15 A. DE JACO, Introduzione a La casa di tufo, cit., p. 16.
16 Ivi, p. 17.
17 ID., Letteratura e Mezzogiorno, in La casa di tufo, cit., p. 197.
18 ID., Ritorno e fuga, ivi, p. 153.
19 ID., 25 luglio di molti anni fa, ivi, p. 161.
20 A. DE JACO, La poesia è metalinguaggio, in “Perimetro”, a. 1, n. 1, 1984, p. 62.
21 Ibid.